The Great Resignation

ovvero le dimissioni dal punto di vista di chi le ha date

Ci sono voluti due anni di pandemia, di cui almeno sei mesi in lockdown, e un principio di esaurimento nervoso per riuscire a prendere la sofferta decisione che da troppo tempo sostava in me, come un tozzo di pane secco in gola, ovvero quello di mandare all’aria una lunga carriera in un’enorme multinazionale che se da un lato negli anni mi aveva regalato ricchi sostentamenti, d’altra parte mi aveva lentamente corroso e reso così infelice e senza speranza da trovarmi ad un certo punto preda della disperazione più nera.

Mi svegliavo la mattina e mi addormentavo la sera con una nausea perenne, che nessun farmaco riusciva a tamponare, soffrivo di febbricole che duravano settimane, le poche ore di tempo libero e l’intero week end li passavo sul divano in pigiama, a farmi scorpacciate di serie tv e film con un’espressione vagamente vacua e senz’altro poco rassicurante. Sembravo a tutti gli effetti un’eroina ottocentesca affetta da consunzione con una spiccata tendenza all’oblomovismo.

Così con l’ultimo atto di forza che mi restava, una domenica sera di qualche mese fa mi sono connessa al sito dell’INPS e ho inviato le mie dimissioni, attuando a tutti gli effetti l’atto più impulsivo e scellerato della mia intera vita.

Ho mandato a gambe all’aria il tavolo su cui ero seduta da anni, senza avere la più pallida idea di cosa in realtà comportasse davvero quel gesto e che tipo di implicazione avrebbe avuto per la mia vita. Apparentemente avevo solo lasciato un lavoro, nella pratica mi ero assunta la responsabilità della mia infelicità, avevo deciso di ascoltare per una volta la mia voce interiore sottraendomi alle aspettative di cui mi sono sempre caricata, prima della mia famiglia e poi del mio compagno. Un gesto che per me ha rappresentato prima di tutto il diritto di ripensare la mia identità, che da tempo si identificava completamente nel mio ruolo lavorativo.

Di questo tema ultimamente se ne sta parlando moltissimo, sembra che dopo questi due ultimi anni folli di pandemia, prima negli Stati Uniti e ora anche in Europa si stia assistendo all’aumento del numero di dimissioni.

È un fenomeno che meriterebbe molta attenzione perché credo che più di altro identifichi il termometro dell’aumento di consapevolezza generale. I numeri sono ancora piccoli, è vero, ma è come se sempre più persone stessero cercando di riappropriarsi di un quotidiano che esprima un senso e che possa offrire un bilanciamento reale fra vita professionale e privata.

Io vivo a Milano dove c’è una devastante cultura lavorativa, gli orari e la pressione sono estremi e completamente avvallati dal sistema, per cui se tenti goffamente di sottrarti, le conseguenze sono tendenzialmente peggiori di quelle che si affrontano se ci si adatta alle richieste aziendali e si mantiene un profilo basso e funzionale alla propria sopravvivenza lavorativa.

La merce di scambio è un discreto benessere, che nel mio caso nel tempo si era svuotato di valore: acquistavo compulsivamente su Amazon qualsiasi cosa, pur di lenire quel sentimento di vuoto cosmico che mi opprimeva l’anima, riempiendo la mia vita di oggetti che non hanno fatto altro che aumentare l’entropia e il disordine interiore che sentivo.

C’è un romanzo breve/racconto lungo di Melville, Benito Cereno, una piccola storia di mare che lessi moltissimi anni fa di cui mi è rimasta impressa questa frase: “Negli eserciti come nelle città e nelle famiglie, la sofferenza provoca il disordine”.

Per me il disordine era diventato opprimente, fosco e oscuro, una specie di nube nera che mi impediva non solo di pensare al futuro, ma anche di vedere il presente e me stessa con lucidità.

Mollare sembrava al momento l’unica scelta possibile, quella più dura e più ricca di incognite, ma anche quella simbolicamente più forte, accettare che nonostante pensassi il contrario, sopportare ancora non era possibile.

Sliding doors

O le capocciate di testa contro il destino

La scorsa settimana ero a pranzo con un collega e mentre ci deliziavamo con insolite amenità culinarie koreane si stava discutendo sull’interessante concetto dei sospesi, ovvero di quelle situazioni che capitano sovente nella vita in cui c’è un potenziale di sviluppo che poi non si realizza creando la classica logica delle slinding doors.

Lui infatti si ricordava di una biondina conosciuta alle elementari di cui si era segretamente, o forse non segretamente, innamorato e che era rimasta sempre nei suoi pensieri come il suo grande amore di bambino. Ci pensava a volte, era persino finito a cercarla su qualche social, e aveva scoperto che era sempre bionda, piuttosto carina, viveva all’estero ed era sposata con un pezzo grosso di una multinazionale.

Il fatto di trovarsi ora felicemente sposato con la donna dei suoi sogni, di avere due splendidi bambini, e di condurre una vita faticosa ma piena, non gli impediva ogni tanto di ripercorrere il suo passato e pensare alla biondina e alle diverse slinding doors che la vita gli aveva disseminato sul cammino.

Interrogata a mia volta sui miei sospesi lì per lì ho negato di averne, un po’ perché volevo recitare la parte della donna sicura della direzione che sta intraprendendo (niente di più lontano da quella che sono, ovvero una perenne indecisa), un po’ perché ci ho messo un attimo a discernere fra le sliding doors finte (ovvero quelle situazioni che pensiamo avrebbero cambiato il corso delle cose, ma che di fatto non avrebbero cambiato nulla) e quelle vere.

18-01-2016-Sliding Doors

Sono giunta quindi, dopo infinite riflessioni a determinare due principali slinding doors della mia vita, che di base sono anche le uniche due a cui ciclicamente ripenso in maniera ossessivo ricorsiva. La prima è avvenuta alla fine del mio percorso universitario, quando dopo essermi laureata con i massimi voti alla facoltà di Lettere, la docente di Letteratura Italiana Contemporanea mi aveva invitata ad iscrivermi ad un dottorato che avrebbe seguito lei, perché a detta sua ero molto dotata per la ricerca e le materie umanistiche, e non avrei dovuto buttare questo capitale umano di cui ero depositaria.

Purtroppo ero giovane e inesperta delle faccende della vita, con una situazione familiare e personale un po’ complicata alle spalle e l’unica cosa che desideravo era essere economicamente indipendente e percorrere la mia strada. Ho quindi deciso di rinunciare al dottorato ed iniziare a lavorare in un’azienda che mi ha introdotta nell’infelice baratro lavorativo in cui mi trovo attualmente.

Uno dei miei più grandi rimpianti è situato lì, nel preciso istante in cui ho deciso di voltare le spalle allo studio, attività che mi rendeva felice e piena e ricca per entrare in un’azienda, in cui ho passato il primo anno a servire caffè nelle riunioni, e dove per la prima volta ho sperimentato la famosa frase di Gore Vidal che dice “The unfed mind devours itself”.

Mi chiedo spesso cosa starei facendo ora se invece di prendere quella decisione ne avessi presa un’altra, se sarei più o meno felice, serena o realizzata. Tento di non pensarci e mi convinco che doveva andare così, cosa che in parte è vera, perché se non avessi intrapreso le orribili strade lavorative delle aziende grosse e cattive non avrei incontrato il Regista, che ha fatto capolino nella mia vita sette anni fa in una riunione pallosissima in ufficio, in cui tutti e due eravamo così annichiliti dagli argomenti di discussione che abbiamo passato tutto il tempo a fissarci con malizia.

L’altra slinding doors è di tipo sentimentale invece, e alzi la mano chi non ne ha almeno una.

Io, che sono un’ impulsiva che si è sempre lanciata a capofitto nelle situazioni più disparate (ho collezionato una serie di casi umani come ex fidanzati che potrei scriverci dei manuali), in realtà ne ho solo una, ma è tosta, così tosta che ogni volta che ci faccio i conti vorrei che arrivasse Maurizio Costanzo e facesse partire i consigli per gli acquisti, perché nonostante siano passati lustri su lustri da quando è accaduta, quando ci penso mi vengono ancora i coccoloni.

Anche la letteratura si è interessata a questo tema sconfinato e bellissimo. Esistono diversi libri illuminanti sull’argomento, il primo che mi viene in mente è Il conte di Montecristo di Alexander Dumas, lettura che consiglio caldamente, perché di storie epiche come quella di Edmond Dantès ne sono state scritte poche e perché offre un’interessante prospettiva sul tema delle slinding doors e sul tema della vendetta. Argomento direttamente correlato in questo caso, poiché è a causa di tre uomini malvagi ed invidiosi che Edmond non solo non può sposare la donna che ama, ma si ritrova anche in prigione accusato di alto tradimento. Quando poi riuscirà a fuggire e diventerà ricco grazie al ritrovamento di un tesoro, tornerà in Francia e passerà gli anni migliori della sua vita a vendicarsi dei tre nemici, accorgendosi poi solo alla fine del libro del tempo perso e del sangue amaro che si è fatto intraprendendo questa via.

Un altro libro non meno interessante è L’amore ai tempi del Colera di Garcia Marquez, che offre un’altra visione ancora più romantica sulla questione, perché Florentino Ariza, il protagonista, ama una donna, Fermina Daza, per tutta la sua vita, anche se lei è sposata con un altro.  Solo da anziani si ricongiungono e si amano (cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese d’attesa), come non avevano potuto fare da giovani (il padre di lei aveva voluto sposasse un uomo più ricco). In questo caso Florentino non si deprime per la sua slinding doors andata, anzi la coltiva nel tempo come un fiore raro, e poi alla fine viene premiato per la sua costanza.

Vogliamo parlare poi di Cime Tempestose di Emily Bronte? Il libro più bello di sempre sugli amori infelici e mai realizzati? Heathcliff e Catherine potrebbero fare una lectio magistralis sulle slinding doors, e per quanto mi riguarda Heathcliff è maestro cintura nera nell’ossessione per l’oggetto d’amore perduto.

E voi  cari lettori, quali sono le vostre slinding doors? Siete più della squadra Dantés o Ariza? Ignorate i vostri rimpianti o li coltivate  con la delicatezza che meritano? Vi disperate come Heathcliff per gli amori passati fino a farli diventare un’ossessione?

Io lavoro tutta la settimana come una cinese con il caldo cocente che mi uccide e dilettarmi con le vostre mancate direzioni di vita mi allieterebbe certamente.

Oppure consigliatemi qualche altro libro su questo interessante tema, sono desiderosa di esplorarne tutte le sfaccettature e continuare a farmi del male, come solo io so fare.

Felicità

Albano e Romina forse lo sanno

Quando sono di cattivo umore mi avvalgo di alcuni rituali per alleviare la pesantezza che sovente si deposita sulla mia anima. Una pesantezza causata da diversi motivi, ma primariamente dal fatto che da un po’ di tempo a questa parte le mie giornate sembrano un trascorrere lento di ore inutili, dedicate ad attività lavorative per le quali non provo il benché minimo interesse.

Convincermi che a differenza di buona parte dei miei coetanei ho un lavoro a tempo indeterminato con un buono stipendio, godo di diversi benefits dati dal lavorare in una multinazionale strutturata e ho un capo abbastanza evoluto che non è difficile sopportare, non è sufficiente. Ciclicamente mi confronto con una angosciante mancanza di senso: occuparsi tutto il giorno di dati di fatturato e studiare tecniche efficaci per aumentare le vendite di prodotti inutili annichilisce e deprime il mio animo umanista.

Mi immagino la delusione di Karl Marx che mi osserva accigliato dall’oltretomba additandomi come responsabile e connivente di questo animale morente che è il capitalismo. Ho tradito gli ideali dei miei studi in Lettere e Filosofia per finire non so come a servire le bieche leggi dell’economia in cambio di un’indipendenza e sicurezza economica che senz’altro hanno un valore, ma di cui pago lo scotto a caro prezzo.

Karl Marx

Quando sto così, quando la vita sembra avere il peso specifico del piombo e mi sembra di aver sbagliato tutto, mi rifugio nei classici balsami che leniscono ogni angoscia: musica, caramelle delle Haribo, cioccolata e buone letture.

Tanto quanto non riesco a digerire i contributi di D’Avenia sul Corriere (non me ne vogliano coloro che lo amano, ma trovo alcuni suoi modi di porsi eccessivamente stucchevoli), tanto amo bazzicare sul blog di Paolo Cognetti, che da bravo uomo di montagna, senza troppi fronzoli o retoriche lascia dei contributi, rari come perle, che mi proiettano in una dimensione così distante dalla mia vita da diventare ispirazionali.

Vi invito a leggere il suo ultimo post su un vecchio montanaro valdostano. Non sono mai apologie della montagna, quanto è bella di lì, quanto si sta bene di là, ma un’analisi lucida di quello che stiamo perdendo, o abbiamo più tragicamente perso, in termini di tradizioni, rapporto e rispetto dell’ambiente e di quello che eravamo prima che il diffuso benessere convincesse tutti che bastava possedere una casa e una bella macchina per essere felici.

A questo proposito mi ha fatto riflettere la dichiarazione della donna più vecchia del mondo, una russa di 129 anni, che dice di non aver avuto mai un giorno felice in tutta la sua vita costellata da guerre, rivoluzioni, e dalla la morte del marito e dei figli. La donna ha detto che non ha fatto nulla per protrarre così a lungo questa vita di supplizi, se non mangiare poca carne, perché non le piace e bere tantissimo latte fermentato di cui è ghiotta. Quindi forse, nonostante lei neghi la presenza di felicità nella sua esistenza, ha condotto la sua vita limitando ciò che non le piaceva (mangiare carne) e abbuffandosi di quello che le piaceva (latte fermentato), seguendo in teoria il principio di piacere che ci spinge, (esclusi quelli del PD e i masochisti come me) verso le cose che ci fanno star bene.

Che poi non è forse questa la felicità?

E voi, cari sparuti lettori, cosa vi rende felici? Bevete latte fermentato, mangiate salsicce, ascoltate Albano e Romina, o leggete bei libri?

Siate sinceri che Carlo vi guarda.

Gameti in crisi

Vota anche tu per l’estinzione

Mentre l’intenso dibattito mediatico attorno alle prossime elezioni impervia, io da donna frivola quale sono, mi occupo invece di notizie più superficiali che rappresentano a mio avviso, più della faccia liftata di Berlusconi, la tragedia dei tempi che corrono.

Pare sia  stata pubblicata la ricerca di un’ equipe di medici europei che ha evidenziato come la presenza di spermatozoi presenti all’interno del liquido seminale maschile negli ultimi 40 anni sia calata circa del 40%. Un uomo americano, europeo, o asiatico, rispetto ai suoi nonni, possiede quasi la metà di spermatozoi, che sembra non si siano semplicemente ridotti in termini di numero, ma anche di qualità.

In questi ambiti, la qualità si misura in standard decisamente virili: uno spermatozoo per essere davvero macho deve essere veloce e avere grande mobilità. Ecco sembra che insieme al numero, queste due caratteristiche siano sempre meno riscontrate: i nostri amici sono lenti e di qualità scadente. Sono un po’ depressi diciamo, e quindi molto spesso la già ardua impresa della fecondazione dell’ovulo diventa una missione pressochè impossibile.

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A questo si aggiunge il fatto che, soprattutto in Italia, l’età media della donna che si approccia alla maternità supera la trentina, dove avviene un calo fisiologico della fertilità e quindi la combo ovulo non freschissimo e spermino lento e poco motivato, determinano la cosiddetta infertilità di coppia, a cui la nostra cara ministra Lorenzin ha voluto dedicare il ben noto Fertily Day.  L’infertilità infatti provoca il temibile calo demografico: la popolazione nel tempo invecchia e la possibilità che il sistema pensionistico possa reggere a queste condizioni è improbabile.

Insomma, ci stiamo estinguendo.

Io ne sono anche abbastanza contenta vi dirò e non ne sono nemmeno stupita. Ho letto tempo fa, su una rivista americana, il parere di un ginecologo esperto in estinzioni animali. Si analizzava l’estinzione del panda, che è stata poi interrotta grazie alle tecniche di fecondazione assistita operate dall’uomo. Perché vi chiederete voi cari amici è stato necessario mettere in provetta pure i panda? Perchè gli orsetti furboni, ad un certo punto, hanno smesso completamente di accoppiarsi, e studiando il perché (anche abbastanza ovvio) di questo fenomeno, si è poi scoperto che era correlato al numero sempre più esiguo di risorse a loro disposizione.

Le foreste di Bambù sono state estirpate per far spazio all’agricoltura e i simpatici mammiferi mangioni, hanno ancestralmente smesso di accoppiarsi, perché di fronte alla mancanza di risorse per crescere la prole, la prole era meglio non esistesse. In fondo è un po’ quello che succede agli animali negli zoo, più lo spazio vitale di un animale si restringe e il suo poter essere animale nell’ambiente è impedito, più diminuisce la possibilità che avvengano accoppiamenti naturali o nascano cuccioli.

Ecco, sta tutto qui. Io credo che all’uomo stia succedendo una cosa simile. Se ci si guarda attorno la percezione è quella di mondo sempre più ostile, con risorse che nel tempo diventano sempre più limitate, e la cui corsa al procacciamento delle stesse ha condotto negli ultimi anni a un disastro nell’ecosistema che sappiamo tutti essere un processo difficilmente reversibile.

Di fatto siamo uomini, e nonostante ci si sia  convinti che indossando abiti firmati, guidando belle macchine e andando al ristorante, la nostra parte più mammifera non esista, ce lo ricordano i nostro ovuli e i nostri spermatozoi che basta, forse è il venuto il momento di farsi due domande. Perchè siamo una civiltà molto brava e puntuale nel dare risposte, ma lacunosa nel mettersi in discussione: siamo fortissimi sulle tecniche di fecondazione in vitro, ma meno bravi a creare le condizioni sociali perché queste non servano.

Non solo, sembra che si faccia sempre meno l’amore: in Svezia il governo ha realizzato un intermezzo pubblicitario in cui invitava le coppie di fronte alla televisione a spegnere l’infernale aggeggio e darsi da fare. Siamo troppo distratti dalla tecnologia e abituati all’intrattenimento passivo: anche fare l’amore diventa poco invogliante. Trovo che se siamo giunti a questo livello, l’alert sia massimo ed è  anche su queste questioni che la politica dovrebbe interrogarsi .

Non abbiamo bisogno di promesse su tasse che verranno magicamente estinte mentre dal cielo pioverà oro, o di garanzie sul benessere che gronderà a fiumi in un’orgia di lavoro e crescita del PIL: credo sia chiaro ormai che non basta quello per rendere dei cittadini felici.

Bisogna tutelare e garantire la qualità della vita, la qualità dell’ambiente in cui viviamo, avere la sicurezza che chi ci rappresenta ha davvero a cuore la sorte dei suoi cittadini e dei figli che verranno dopo di loro, e invece la politica è diventata uno show di individui narcisisti che recitano la loro piecé teatrale tentando di smantellare quello che è stato fatto nella legislazione precedente.

E così all’infinito, in un eterno ritorno da girone dantesco.

Io domenica andrò a votare, vorrei evitare tantissimo di trovarmi il Berlusca o Salvini come presidenti del consiglio, cosa che è molto probabile succeda. Domenica ho organizzato un rituale ellenico, in cui brucerò incenso e ballerò come una vestale tenendo fra le mani l’etica di Spinoza e chiedendo l’interdizione di YHWH (mi sembra un Dio più severo degli altri), nella speranza che elimini i corrotti, salvi i giusti e faccia resuscitare Ugo Tognazzi per qualche ora mentre in loop mi fa la scena della Supercazzola, solo per me.

E voi, cari amici,  come vi preparate per le elezioni?

Settimana della moda

L’insostenibile inadeguatezza dell’essere

E anche questa settimana della moda ce la siamo levata dalla scatole. Sono felice che si sia tornati al regolare intasamento metropolitano, e soprattutto gioisco nel non vedere più valchirie minorenni dalla bellezza sfolgorante camminarmi accanto.

Il mio personale contributo all’ esploit modaiolo di questi giorni, che in parte esplicita anche il mio interessamento alla questione, è stato girare per Milano vestita con cappotto,  cappello e sciarpa neri, leggins blu oceano e stivaletti color carne. Un’improbabile accozzaglia di colori che neanche La Rettore nei suoi momenti di gloria ha eguagliato. Il dettaglio di stile che impreziosiva il tutto era dato da delle striature immonde sui leggins, trasparenti ed equivoche, generate dal rovesciamento involontario di sciroppo per la tosse a base di bava di lumaca. Non avendo cambi a portata di mano ho dovuto girare così un sabato pomeriggio, creando ilarità e sorrisi di compatimento negli sguardi che incrociavo.

Comunque se devo dirla tutta, iniziare l’anno con Memorie dal Sottosuolo non è risultato essere una scelta propiziatoria, almeno dal punto di vista prettamente fisico/salutistico. Dopo essere infatti sopravvissuta alla prima ondata di influenza, sono caduta preda anche dalla seconda, inaugurando ufficialmente il 2017 come uno degli anni in cui le mie difese immunitarie si sono dimostrate un completo fallimento. Certo ho manifestato una sintomatologia differente dalla precedente, per cui se prima avevo bronchite-raffreddore-febbre questa volta ho potuto sperimentare l’accoppiata faringite- tracheite- tosse che si è dimostrata certo più persistente e fastidiosa della precedente. Anche in questo caso, quando in preda alla disperazione e assolutamente convinta di aver contratto la meningite ho pensato che sarei morta, sono invece sopravvissuta, grazie anche alle parole di conforto del mio medico di base, che ha ben pensato di liquidare la mia pratica al telefono, comunicandomi che se avessi avuto la meningite non avrei avuto il tempo di discorrere così amabilmente con lui.

Nel frattempo niente di nuovo è accaduto alla mia vita, se non che sono giunta a pagina seicento di David Copperfield, e ammetto di esserne sempre più entusiasta. Charles Dickens è un genio. Parlo al presente perchè se ti permetti di scrivere libri del suo calibro, alla fine non muori mai.  Sono al punto in cui David è un giovanotto e si è anche un po’ ripreso, per fortuna, dalle sfighe della sua infanzia, ma credo si appresti a nuovi dolori e delusioni. Vi terrò aggiornati. Comunque sono così entusiasta che sono finita su Etsy cercando una copia  datata del libro da collezionare, ovviamente di non pregevole fattura, che mi consentisse di dedicargli un posto privilegiato nella mia libreria, e  sono incappata in questo negozio, the Locket Library,  che mi ha fatto letteralmente impazzire.

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Praticamente questa ragazza fa piccoli gioielli con le copertine dei libri, collane, bracciali, orecchini. Io non ho potuto esimermi dal comprare un ciondolo con la copertina di David, ovviamente. Sarò orgogliosa di indossarlo con i miei maglioni dai colori improbabili, slumacati dai vari rimedi popolari anti ipocondria di cui mi avvalgo.

ps: vi consiglio di non sottovalutate la bava di lumaca come sciroppo, è la svolta!

 

 

 

Emergenza

O il disagio della vita quotidiana

Molto spesso mi capita di pensare e riflettere sul momento storico che il mondo sta attraversando e che noi uomini sul pianeta terrestre stiamo vivendo. Mi piace tenermi aggiornata e nonostante non sia una fanatica della notizia, mi tengo sempre informata su quello che succede, sfidando tutte le leggi del buonsenso e del raziocinio, visto che per una cosa che va bene ce ne sono cento che vanno, come direbbe Montalbano, a schifio.

L’altro giorno in ufficio, leggevo sul Corriere che stanno aumentando nella popolazione le casistiche di depressi e ansiosi e pare che il numero di gente che assume psicofarmaci sia in costante crescita. Commentava la notizia qualche superguru della psichiatria sperticandosi in dissertazioni dense di virtuosismi freudiani. Ora non mi serve essere Andreoli, per farmi un’idea (personale) di questo fantomatico perché.

Viviamo in un mondo proiettato verso tempi bui, forse anche nel Basso Medioevo era così, e noi al posto dei nostri avi medioevali ce la stiamo spassando alla grande, ma ci sono comunque mille motivi di ansie e preoccupazioni generati dal contesto  globale  su cui non abbiamo controllo: cambiamenti climatici, guerre, terrorismo, malattie, sofferenze, epidemie. Per una persona dotata di un minimo di sensibilità è impossibile non essere invaso da una vaga sensazione d’ansia, amplificato poi dalla diffusione di notizie in tempi record.

Secondo, io sono convinta del fatto, che viviamo delle vite che non sono più a misura d’uomo. In fondo l’evoluzione della specie è lenta, noi abbiamo ancora i denti del giudizio che a tutti gli effetti non ci servono a un tubo, se non a rendere felici i dentisti e farci passare dei brutti momenti. Ai primitivi invece, servivano e pare che solo fra non so quante migliaia di anni gli uomini non li avranno più, perché l’evoluzione se ne sarà liberata. Se ci mettiamo a fare due conti, capiamo che non siamo proprio studiati per i cambiamenti repentini, e invece nell’ultimo secolo la vita dell’uomo si è stravolta. Da una società agricola, siamo balzati a una società industriale, ci hanno preso e forzato i tempi, chiusi negli uffici per dieci ore con le chiappe inchiodate alla sedia a la mente inebetita al computer o in qualche fabbrica alla catena di montaggio. C’è a chi piace certo (a me personalmente non tanto). Ritengo che questo incida profondamente sulla qualità della vita dell’uomo.

Un altro aspetto è senz’altro il pessimo lavoro che stanno facendo i media di questi tempi. L’allarmismo è sempre dietro l’angolo. Nel giro di poco si passa, dall’emergenza caldo, all’emergenza freddo (come se caldo e neve non fossero sempre esistiti nella vita dell’uomo), poi abbiamo l’emergenza terrorismo, quest’anno c’è anche l’emergenza meningite (che si accumula alla nefasta emergenza dell’influenza stagionale), l’emergenza terremoto, l’emergenza clima, l’emergenza disoccupazione. In tutte queste emergenze anche il più sano di mente perde la brocca. Anche perché a corollario di tutto questo c’è la cronaca nera, delitti, omicidi, assassinii, e non in ultimis lo spauracchio malattia, quindi c’è il mese della prevenzione al seno, il mese della prevenzione alla prostata, quella del colon, il mese del sorriso, il mese del ginecologo il mese dell’otorino. Che se uno seguisse il calendario per davvero dovrebbe essere dal medico tutte le settimane.

Badate bene, non sono dell’idea che si debba stare nel mondo, come degli sciocchi sprovveduti a fingere che tutto vada bene e sia tutto bello, niente affatto. Sono però per la consapevolezza mediata, ovvero una consapevolezza strutturale che aiuti l’individuo a muoversi nel mondo responsabilmente, senza essere vinto dalla paura di vivere. Purtroppo con un bombardamento quotidiano di questo tipo è molto difficile.

In poco tempo si ottiene una massa di individui terrorizzati dal mondo, depressi, che si bevono il Lexotan a colazione e si comprano il dizionario dei sintomi (maledetto chi lo inventò!) da poter sfogliare ogni qualvolta l’ipocondria bussa. Io stessa sono così, ci combatto tutti i giorni, o almeno ci provo.

Comunque questo post è venuto lunghissimo e barboso come un discorso di Monti, quindi adesso chiudo. Visto che però è morto il mio amico Zygmunt Bauman, a medicina di quanto sopra scritto, vi suggerisco la lettura di questo libro.

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Io ora vado ad affrontare l’emergenza neve!

Tu chiamale se vuoi emozioni

Milano, o cara

Oggi è una bella giornata. Facendo un refresh isterico sulle statistiche di wordpress ho realizzato, con somma emozione, che in questi giorni  ho avuto cinque visitatori.

Cinque visitatori mi sembrano tantissimi. Sto provando ad immaginarmi da ore i loro volti da casuali avventori. Più che altro mi chiedo come siano approdati a misschorri. Probabilmente stavano cercando altro e il fato li ha voluti condurre su questa disastrosa pagina, che  oltre a dimostrare le mie scarse capacità nell’uso di wordpress non renderà il mondo un posto migliore.

O forse lo renderà, considerato che migliorando il mio umore sono più avvezza a elargire sorrisi e quindi a riversare molecole di felicità nell’aria di Milano, che diciamocelo pure, di felicità ne ha assai bisogno.

Ho quest’idea, personalissima e ovviamente contestabile, che la gente a Milano non sia felice.  Non voglio farne una legge universalmente incisa nelle sacre pietre bibliche,  però basta guardare un po’ le facce in giro per farsi un’idea. Pochi sorrisi, molta nevrosi, gente che corre, spinge e urta, psicosi da terrorismo.

Io nonostante ci viva da tre anni, sono ancora nella fase della negazione freudiana. Mi sveglio la mattina e mi infliggo delle punizioni corporali per verificare che non sia tutto un sogno. Quando mi rendo conto che sto solo bruciando minuti preziosi alla colazione, passo alla fase dell’accettazione e affronto la dura realtà. Il rituale si ripropone identico dal lunedì al venerdì, d’estate anche nei festivi.

Il momento peggiore, quello in cui di norma, mi riprometto di licenziarmi, trasferirmi in cima a una montagna e occuparmi di pastorizia, è quando affronto la metropolitana.

L’esperienza, ammettiamolo, può essere anche inverosimilmente preziosa e formativa, ma solo per chi è disposto ad imparare. Si può venire spesso demoralizzati dal poco spazio pro capite a disposizione, dalle condizioni estreme dei vagoni (caldo soffocante d’estate e freddo ibernante d’inverno), dall’invadenza dei costumi delle persone che la frequentano (gente che discute al telefono di dettagli intimi della propria vita, gente che non si toglie lo zainetto anche se si è in 500 in 5mq, gente che impone le proprie scarse regole di igiene personale e i loro conseguenti effluvi) e dalle innumerevoli interruzioni del servizio per uomini ritrovati in galleria,  tragici suicidi e presunti pacchi bomba.

Vi posso però garantire che chi sopravvive, acquisisce una tempra che lo aiuta a scalare la dura piramide dell’evoluzione. Darwin si è fermato all’Homo Sapiens, perché ai suoi tempi le metro non c’erano. Ma sono sicura che nel caso ci fossero state avremmo avuto l’Homo Metrus. Con lo zainetto, ovviamente.

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