Uno degli aspetti che hanno inciso sulla mia decisione di abbandonare una ridente carriera in una GMB (Grande Multinazionale Brutta) per un futuro essenzialmente ignoto, è stata un’avvilente nausea che nel tempo avevo sviluppato per i temi che quotidianamente mi trovavo ad affrontare.
Come dico ai sempre colloqui quando mi viene chiesto di definire la mia posizione lavorativa, io sono, (lavorativamente parlando of course), una professionista della cosmetica, cioè una (poco lungimirante) che dal primo giorno ha sempre e solo lavorato per grandi aziende che producono e distribuiscono cosmetici, quindi creme viso, trucchi, parrucchi e via dicendo.
All’inizio, quando giovane e fresca di laurea cercavo la via più veloce per rendermi autonoma economicamente e ho iniziato uno stage in una prestigiosa azienda del settore, mi sembrava tutto un grande parco dei divertimenti. Potevo finalmente conoscere i segreti di un mondo molto al femminile, provare trucchi, testare nuove creme, accedere al dietro le quinte di uno dei settori industriali più floridi e interessanti (dal punto di vista tematico perlomeno) per una giovane donna.
Passata l’ubriacatura del primo momento però, ho iniziato a notare come lo stare immersa tutto il giorno in questa rutilante fiera della vanità, stesse amplificando in me alcune questioni in un modo abbastanza inquietante.

Ero sempre ossessionata da come apparivo, e da come appariva la mia pelle, passavo le giornate a spalmarmi creme e cremine, a guardarmi allo specchio in cerca di approvazione. Progressivamente pensieri che prima mi avevano sfiorato parzialmente avevano iniziato a diventare non sono primari ma anche onnipresenti. E, ovviamente, non mi facevano stare bene.
Erano però molto funzionali al sistema: l’essere target del prodotto che vendevo mi rendeva la migliore consumatrice di sempre, quella che in gergo chiamavamo top client, ricorsiva, altospendente, performativa, vittima consapevole del messaggio che predicavo.
Vivevo (e vivo in realtà) i segni inevitabili di un sano invecchiare, (i primi capelli bianchi e le piccole rughe) come dei veri e propri drammi, accompagnati anche da un insano senso di colpa che mi faceva pensare che non avevo fatto abbastanza e che potevo fare di più: potevo comprare creme più costose, prendere più vitamine, espormi meno al sole, fare più sport.
Avevo introiettato, come tutti, il mito distruttivo della bellezza e dell’ossessiva cura del sé, quello che abbastanza comunemente si vede nei volti devastati dalla chirurgia estetica, o che viviamo quotidianamente nelle nostre vite sentendoci in colpa se non riusciamo ad avere una forma o un peso “ideale”, se non dedichiamo abbastanza tempo allo sport o abbiamo un’alimentazione sregolata.
Come se in fondo l’unico modo per prendersi cura di sé, sia quello di occuparci del nostro corpo, quando invece il concetto di cura comprende un’attenzione e un allineamento profondo con il proprio sé, un ascolto quotidiano che si affina nel tempo e che ci dovrebbe aiutare a riscoprire la nostra unica singolarità. Una riscoperta che probabilmente metterebbe in discussione molti aspetti del nostro stile di vita e che nuocerebbe agli imperativi del capitalismo che ci vuole instancabili lavoratori, bulimici consumatori e inermi pensatori.