La bellezza ti fa triste

Anche i capelli bianchi in realtà

Uno degli aspetti che hanno inciso sulla mia decisione di abbandonare una ridente carriera in una GMB (Grande Multinazionale Brutta) per un futuro essenzialmente ignoto, è stata un’avvilente nausea che nel tempo avevo sviluppato per i temi che quotidianamente mi trovavo ad affrontare.

Come dico ai sempre colloqui quando mi viene chiesto di definire la mia posizione lavorativa, io sono, (lavorativamente parlando of course), una professionista della cosmetica, cioè una (poco lungimirante) che dal primo giorno ha sempre e solo lavorato per grandi aziende che producono e distribuiscono cosmetici, quindi creme viso, trucchi, parrucchi e via dicendo.

All’inizio, quando giovane e fresca di laurea cercavo la via più veloce per rendermi autonoma economicamente e ho iniziato uno stage in una prestigiosa azienda del settore, mi sembrava tutto un grande parco dei divertimenti. Potevo finalmente conoscere i segreti di un mondo molto al femminile, provare trucchi, testare nuove creme, accedere al dietro le quinte di uno dei settori industriali più floridi e interessanti (dal punto di vista tematico perlomeno) per una giovane donna.

Passata l’ubriacatura del primo momento però, ho iniziato a notare come lo stare immersa tutto il giorno in questa rutilante fiera della vanità, stesse amplificando in me alcune questioni in un modo abbastanza inquietante.

Ero sempre ossessionata da come apparivo, e da come appariva la mia pelle, passavo le giornate a spalmarmi creme e cremine, a guardarmi allo specchio in cerca di approvazione. Progressivamente pensieri che prima mi avevano sfiorato parzialmente avevano iniziato a diventare non sono primari ma anche onnipresenti. E, ovviamente, non mi facevano stare bene.

Erano però molto funzionali al sistema: l’essere target del prodotto che vendevo mi rendeva la migliore consumatrice di sempre, quella che in gergo chiamavamo top client, ricorsiva, altospendente, performativa, vittima consapevole del messaggio che predicavo.

Vivevo (e vivo in realtà) i segni inevitabili di un sano invecchiare, (i primi capelli bianchi e le piccole rughe) come dei veri e propri drammi, accompagnati anche da un insano senso di colpa che mi faceva pensare che non avevo fatto abbastanza e che potevo fare di più: potevo comprare creme più costose, prendere più vitamine, espormi meno al sole, fare più sport.

Avevo introiettato, come tutti, il mito distruttivo della bellezza e dell’ossessiva cura del sé, quello che abbastanza comunemente si vede nei volti devastati dalla chirurgia estetica, o che viviamo quotidianamente nelle nostre vite sentendoci in colpa se non riusciamo ad avere una forma o un peso “ideale”, se non dedichiamo abbastanza tempo allo sport o abbiamo un’alimentazione sregolata.

Come se in fondo l’unico modo per prendersi cura di sé, sia quello di occuparci del nostro corpo, quando invece il concetto di cura comprende un’attenzione e un allineamento profondo con il proprio sé, un ascolto quotidiano che si affina nel tempo e che ci dovrebbe aiutare a riscoprire la nostra unica singolarità. Una riscoperta che probabilmente metterebbe in discussione molti aspetti del nostro stile di vita e che nuocerebbe agli imperativi del capitalismo che ci vuole instancabili lavoratori, bulimici consumatori e inermi pensatori.

Recovery letterari

Gli ammolli che fanno bene all’anima

Quando ho comunicato ai miei amici e familiari che mi ero licenziata senza avere un progetto preciso per il futuro, le reazioni sono state fra le più disparate. C’è chi mi ha supportato, chi meno, chi probabilmente mi ha giudicato una pazza, chi semplicemente ha ritenuto di non dovere esprimersi in un modo o nell’altro. La domanda però che mi è stata rivolta più spesso è stata: “E adesso cosa farai tutto il giorno?”.

Questo horror vacui collettivo proiettato sulle mie giornate, mi ha fatto molto riflettere su come siamo arrivati a vivere e ancora più a concepire il tempo a nostra disposizione, non come dimensione in cui è lecito che si possa dare semplicemente spazio all’accadere, ma come una specie di orrifico buco nero da riempire di cose fare. Inizialmente io stessa mi ero preparata un puntuale retroplanning di cose che avrei fatto, manuali che avrei letto, master che avrei frequentato, fiere a cui sarei andata e attività che sentivo giusto avrei dovuto compiere a giustificazione della decisione che avevo preso.

Poi mi sono fermata a riflettere e ho pensato che l’unica persona a cui dovevo rispondere di questa scelta ero io e solo io, sia in termini di rischi che di opportunità e che quindi mi sarei presa tutto il tempo necessario per riposarmi, riprendermi e lasciare venire a galla tutto il sommerso e il naufragato degli ultimi anni.

L’unico progetto in cui mi sarei imbarcata, almeno nell’immediato era quello di dedicarmi a un mio personalissimo recovery, e nel pensarlo mi sono ispirata al grande protagonista del romanzo dell’ottocento: il bagno, la pratica più benefica di tutte per risolvere tisi, isteria, depressione, stanchezza, e finanche il mal d’amore.

L’acqua ha il magico potere della taumaturgia: lava, avvolge, cura e sostiene. C’è un bellissimo cartone animato, che consiglierei a tutti di vedere, La città incantata di Hayao Miyazaki, dove c’è la rappresentazione di uno dei luoghi immaginari più poetici e straordinari di sempre, ovvero le terme degli spiriti. Lì vi si recano gli spiriti che hanno bisogno di cure e che grazie a bagni benefici e acque ristoratrici si riconnettono a sé stessi guarendo dalle loro malattie.

Io mi sentivo esattamente così: spiritualmente vampirizzata e fradicia di angoscia, insomma ‘na fetenzia.

Forte però della letteratura in materia e seguendo le orme di Hans Castorp nel sanatorio della Montagna Incantata, ho deciso quindi che anche io avrei messo a bagno il mio corpo e il mio spirito lasciando che acque e sali facessero il loro lavoro.

Ogni settimana da gennaio fino a poco tempo fa, mi sono dedicata un bagno a tema letterario, con un podcast, un libro o della musica che corroborassero questo disorganizzato percorso di guarigione di cui sentivo avere bisogno.

All’inizio non nego che mi è sembrata tutta una pantomima, ma piano piano, vuoi per la regolarità, vuoi per la cieca convinzione che nutrivo in questo mio piano balzano, ho iniziato a sentirmi meno come la bambina di The Ring e ho iniziato a riflettere sulla potenza salvifica dei gesti riparatori che compiamo ogni giorno per sostenere le fatiche della vita, gesti assolutamente intimi e personali che ci riconnettono a noi stessi.

Mi piacerebbe conoscere i vostri, per cui se vi va, condivideteli!

The Great Resignation

ovvero le dimissioni dal punto di vista di chi le ha date

Ci sono voluti due anni di pandemia, di cui almeno sei mesi in lockdown, e un principio di esaurimento nervoso per riuscire a prendere la sofferta decisione che da troppo tempo sostava in me, come un tozzo di pane secco in gola, ovvero quello di mandare all’aria una lunga carriera in un’enorme multinazionale che se da un lato negli anni mi aveva regalato ricchi sostentamenti, d’altra parte mi aveva lentamente corroso e reso così infelice e senza speranza da trovarmi ad un certo punto preda della disperazione più nera.

Mi svegliavo la mattina e mi addormentavo la sera con una nausea perenne, che nessun farmaco riusciva a tamponare, soffrivo di febbricole che duravano settimane, le poche ore di tempo libero e l’intero week end li passavo sul divano in pigiama, a farmi scorpacciate di serie tv e film con un’espressione vagamente vacua e senz’altro poco rassicurante. Sembravo a tutti gli effetti un’eroina ottocentesca affetta da consunzione con una spiccata tendenza all’oblomovismo.

Così con l’ultimo atto di forza che mi restava, una domenica sera di qualche mese fa mi sono connessa al sito dell’INPS e ho inviato le mie dimissioni, attuando a tutti gli effetti l’atto più impulsivo e scellerato della mia intera vita.

Ho mandato a gambe all’aria il tavolo su cui ero seduta da anni, senza avere la più pallida idea di cosa in realtà comportasse davvero quel gesto e che tipo di implicazione avrebbe avuto per la mia vita. Apparentemente avevo solo lasciato un lavoro, nella pratica mi ero assunta la responsabilità della mia infelicità, avevo deciso di ascoltare per una volta la mia voce interiore sottraendomi alle aspettative di cui mi sono sempre caricata, prima della mia famiglia e poi del mio compagno. Un gesto che per me ha rappresentato prima di tutto il diritto di ripensare la mia identità, che da tempo si identificava completamente nel mio ruolo lavorativo.

Di questo tema ultimamente se ne sta parlando moltissimo, sembra che dopo questi due ultimi anni folli di pandemia, prima negli Stati Uniti e ora anche in Europa si stia assistendo all’aumento del numero di dimissioni.

È un fenomeno che meriterebbe molta attenzione perché credo che più di altro identifichi il termometro dell’aumento di consapevolezza generale. I numeri sono ancora piccoli, è vero, ma è come se sempre più persone stessero cercando di riappropriarsi di un quotidiano che esprima un senso e che possa offrire un bilanciamento reale fra vita professionale e privata.

Io vivo a Milano dove c’è una devastante cultura lavorativa, gli orari e la pressione sono estremi e completamente avvallati dal sistema, per cui se tenti goffamente di sottrarti, le conseguenze sono tendenzialmente peggiori di quelle che si affrontano se ci si adatta alle richieste aziendali e si mantiene un profilo basso e funzionale alla propria sopravvivenza lavorativa.

La merce di scambio è un discreto benessere, che nel mio caso nel tempo si era svuotato di valore: acquistavo compulsivamente su Amazon qualsiasi cosa, pur di lenire quel sentimento di vuoto cosmico che mi opprimeva l’anima, riempiendo la mia vita di oggetti che non hanno fatto altro che aumentare l’entropia e il disordine interiore che sentivo.

C’è un romanzo breve/racconto lungo di Melville, Benito Cereno, una piccola storia di mare che lessi moltissimi anni fa di cui mi è rimasta impressa questa frase: “Negli eserciti come nelle città e nelle famiglie, la sofferenza provoca il disordine”.

Per me il disordine era diventato opprimente, fosco e oscuro, una specie di nube nera che mi impediva non solo di pensare al futuro, ma anche di vedere il presente e me stessa con lucidità.

Mollare sembrava al momento l’unica scelta possibile, quella più dura e più ricca di incognite, ma anche quella simbolicamente più forte, accettare che nonostante pensassi il contrario, sopportare ancora non era possibile.

2019, o caro!

Buoni propositi, anche detti la dittatura delle liste

E anche questa volta, nonostante le profezie Maya ci volessero estinti lustri fa, siamo arrivati all’inizio di un nuovo anno. Non so mai come approcciarmi alla questione “nuovi inizi”, provo sempre una serie di sensazioni contrastanti che spaziano dalla tristezza alla consapevolezza che più gli anni avanzano più diventa necessario cercare il cambiamento, perché il flusso delle cose che accadono nella vita adulta di un individuo lavorante è relegato ai noiosi fatti della routine.

Così non sopporto le revisioni entusiastiche di fine anno tipo: ho mangiato in tanti ristoranti, ho letto tanti libri, ho viaggiato tanto, ho cucinato e imparato a ballare la polka, non tanto per il concetto in sé, che anzi è giusto e buono e sacrosanto e vero, ma perché non riesco a fare a patti con il fatto che questo sia il massimo che una persona possa aspettarsi da un anno di vita appena trascorso.

Ho un problema probabilmente (anzi sicuramente), anche perché i miei ultimi anni sono stati così complicati e duri che dovrei rendere grazia ai corsi di cucina se mai ne avessi fatto uno, e invece riesco solo a non sopportare questo delirio di revisioni e buoni propositi che mi circonda.

Io non li faccio, il mio unico buon proposito, che resta relegato nella sfera dell’impossibile, è ritirarmi in campagna come una nobildonna inglese con il solo pensiero di sfoltire i miei cespugli di rosa con un tronchesino e proteggerli dagli afidi. Pare più un sogno che un buon proposito, ma sono dell’idea che bisogna essere massimamente ambiziosi se si tratta di porsi degli obiettivi, sempre e comunque.

Quindi faccio capolino in questo 2019 con delle aspettative abbastanza realistiche, anche perché come dice il detto, Roma non è stata costruita in un giorno, e aspettarmi cambiamenti epocali da una situazione sulla quale non sto lavorando non solo non è costruttivo, ma anche infantile. L’unica cosa di cui sono certa, è che se mi prefiggerò degli obiettivi, resteranno nell’iperuranio delle idee libere e non li metterò per iscritto.

La questione delle liste infatti mi infastidisce assai: odio questo dilagare delle liste imperanti, liste di libri da leggere, liste di motivi per cui essere grati, liste di propositi, liste di superfood: comprendo l’utile e proficuo metodo dell’appuntarsi le cose, che però io delego a quello che non sopporto fare, tipo la spesa o le attività che devo svolgere in ufficio, perché in entrambi i casi mi dimentico spesso quello che non amo affrontare.

Trovo anche che ci sia un certo misunderstanding di fondo in questa questione, ovvero se sei davvero coinvolto da una situazione, da un’idea o da un messaggio, sei un evidente portavoce vivente di quell’idea e non è necessario fare del proselitismo o appuntarti che per quell’anno perché ti piace leggere, leggerai 100 libri. O che sei davvero grato alla vita, perché scrivi tutte le sere le cose per cui sei grato. O che sei vero amante di cinema, perché te ne guardi 1000 all’anno.

Certo, sono anche conscia del prezioso potere dello scripta manent verba volant, ma comunque ho una certa avversione ideologica, forse un poco snob, per questi fenomeni di costume. Questo è un mio grande limite e difetto: mi perdo dei pezzi di vita a star a guardare quello che non mi piace, lo trovo ipnotico e bellissimo, come guardare i film trash tipo Sharknado.

Comunque, che io lo voglia o meno il 2019 è iniziato, e non so bene quello che succederà, ma so che se sono riuscita a sopravvivere dal 2015 al 2017 (anni funestissimi e pieni di pensieri, troppi pensieri), probabilmente sopravviverò anche a questo, tolto che qualche squalo inizi a piovere dal cielo!

s-kT2G-U4303023433584N1D-593x443@Corriere-Web-Sezioni

Buon Anno a tutti!

L’Attesa

Compianta amica dei verdi anni

Uno degli aspetti di cui mi sento più privata da questi tempi balordi è quello dell’attesa. Ci ho riflettuto giusto questo week-end, reduce da un binge watching scatenato che mi ha portata a consumare una serie tv di tipo dodici puntate in due giorni. Nonostante non riuscissi a smettere, posseduta dal demone del consumo folle e incapace di pensare ad altro se non terminarla, alla fine, terminata la scorpacciata, concluso il valzer, visto il finale, non mi sono sentita meglio. Al contrario, ho provato la stessa sensazione del mal di pancia dopo un’indigestione, una sorta di nausea del technicolor, un rifiuto totale della situazione, nonché a conti fatti una totale non comprensione di quello che avevo visto perché concentrato in un lasso di tempo così ristretto.

inline-2011-photo-of-the-year-w7

Automaticamente ho ripensato a come funzionavano le cose quando ero una bambina, quando non tutto era on demand, anzi quando l’attesa e il pathos erano parte preponderante della mia vita. E non so se sia la classica nostalgia canaglia, o altro, ma mi sembra che tutto fosse sì più complicato, ma anche più bello. Ricordo che si aspettava per giorni, a volte settimane, che un film o un cartone venisse proiettato in tv.  E quando questo succedeva uno dei miei fratelli si piazzava su tappeto una mezz’ora prima, in attesa che la proiezione iniziasse, per poi comunicarlo con un poderoso urlo: “É iniziato, correte”.  E si correva davvero, tutti incollati al televisore, realmente concentrati sulla visione, che magari per mesi o settimane non ci sarebbe più stata.

Questa prospettiva della non ripetizione immediata creava un’emozione molto intensa, e non solo, in qualche modo il messaggio che si riceva aveva qualcosa di pedagogico, si era educati all’idea che non tutto poteva essere posseduto subito e ora. C’erano delle regole e una di quelle regole era saper aspettare. Aspettare che il fidanzatino telefonasse senza sapere quando, aspettare che qualcuno venisse a trovarci senza annunciarsi, aspettare che il proprio cartone preferito andasse in televisione, aspettare l’estate per andare al mare, aspettare per poter avere l’età giusta per restare fuori a dormire e così via.

Negli ultimi anni tutto è cambiato, tutto è diventando on demand. Possiamo decidere quando e come e perché vedere un film o una serie tv (con qualche limitata eccezione), possiamo telefonare e raggiungere qualcuno in qualsiasi luogo e ora, possiamo andare al mare d’inverno, possiamo ordinarci il pranzo, la spesa e qualsiasi cosa senza muoverci da casa, perché qualcuno lo porterà per noi.

È come se le cose del mondo si stiano sempre più organizzando verso l’ego riferimento, verso la risoluzione di qualsiasi tensione o esigenza che proviene dall’io. Egocentriche le cose lo sono sempre state: l’uomo ha  vissuto nel mondo plasmandolo e intervenendo sulla Natura per renderlo più funzionale alla sua vita. Ora sta succedendo una cosa simile ma diversa, perché la tecnologia ha in realtà risposto alle necessità non dell’uomo come categoria, ma del singolo, come individuo, ponendolo al centro dello sviluppo di risposte funzionali. Riduzione dei tempi d’attesa, riduzione della frustrazione, riduzione del contatto con l’Altro, riduzione delle code, riduzione delle complicazioni.

Tutte cose utili e buone, che però hanno spazzato via anche il pathos, la gioia di non sapere, il languore che deriva dal non poter controllare tutto e che porta ad aprirsi alla magia dell’inedito e dello sconosciuto.

Io credo che non ci debba stupire molto di quello che sta succedendo nel mondo in questo momento: si sta organizzando sempre di più una risposta, anche politica, che tutela le necessità del singolo e non della collettività, concetto probabilmente già in via d’estinzione, anche se continuamente citato e caldeggiato.

Comunque, nonostante non sarò io a risolvere gli scabrosi problemi di questa umanità, mi piace pormi  sommi quesiti esistenziali che peggiorano il mio mal di stomaco, problematizzano le mie notti, e mi fanno consumare quantità eccessive di cioccolata.

Per chi volesse approfondire la questione relativa alla nostalgia in modo puntuale, vi lascio questo articolo che la spiega meglio di come la potrei spiegare io. Non abbiate pregiudizi sulla testata che lo pubblica, perché è davvero scritto bene e il tema è davvero interessante e pieno di spunti.

Vorrei però sapere da chi mi legge, se anche voi siete dei nostalgici oppure vi integrate bene nel mondo, e nel caso come fate a gestirla decentemente, ecco. Io onestamente sono abbastanza disastrosa, ma mi piace pensare che nel tempo potrò migliorare!

Insonnia

Virtù teologali del non dormire

A settembre, lo diceva anche D’Annunzio, è tempo di migrare. Poco importa che siano migrazioni fisiche, psicologiche, emotive, situazionali o meteorologiche, settembre è il classico mese di transito che ti conduce dalla fine dell’estate all’autunno (questo almeno prima che si manifestasse il global warming), che ti traghetta dall’ozio delle vacanze estive al rientro al lavoro, che ti pone delle domande, che ti scuote l’anima chiedendo risposte agli interrogativi che uno evita di porsi da aprile in poi, che tanto si sa, si aspettano le vacanze estive.

Questo almeno per la maggior parte delle persone, che vede in settembre, e non in dicembre il reale inizio dell’anno. Io che sono sempre in ritardo su tutto, e che faccio del procrastinare uno stile di vita, attribuisco questo potere rigenerativo al mese di ottobre, un po’ perché mi è più simpatico, un po’ perché ci compio gli anni e quindi fare il punto della situazione è dovere e non velleità.
In questi criptici cambi di stagione e di vita il mio pensiero si fa prepotente e rutilante a causa di una delle affezioni più note e più stressanti di sempre, che pare affliggesse anche le notti del buon Gaio Augusto Cesare: la cara e odiata insonnia.
Io sono un insonne intermittente, dormo bene per mesi (soprattutto quelli invernali), poi dormo malissimo per altri mesi, poi ricomincio a dormire bene, poi male, poi bene, e avanti così in un perpetuo ciclo del disagio che tento ogni volta di gestire nel modo migliore possibile, ma spesso non all’altezza della situazione.
Celine diceva: “Se avessi sempre dormito bene non avrei mai scritto un rigo…” e sono anche io piuttosto convinta che lo stream of consciousness notturno sia prolifico per la scrittura e la creatività e la riflessione profonda, ma trovo allo stesso tempo che sia molto inadatto a chi conduce una vita diurna lavorativa, tipo me.
Le mie notti ultimamente assumono quindi dei toni dai contorni mistici, in cui l’obiettivo finale non è l’eterna benedizione ma qualche ora di sonno ristoratore.

20180820150715_dip.ant104_3

FEDE
L’appropinquarsi al coricarsi è ebbro della certezza che dormirò. Mi convinco che convincermi che riposerò bene tenga a bada l’ansia, sciolga i nervi, mi proietti già in una dimensione di relax.
Metto in atto le routine che qualsiasi sito web anti-insonnia propone come panacee: bagni caldi, tisane, luci soffuse, letture lente. Faccio bene i compitini e almeno un’ora di prima di dormire evito anche di usare iphone, ipad, televisori, computer, qualsiasi supporto che emani una luce che non sia quella delle lampade analogiche. Per un certo periodo mi sono anche corretta le tisane con il Braulio, come faceva mia nonna quando ero piccola per farmi rilassarmi e dormire, mandando in bestia mia madre che prevedeva per me un sicuro futuro da alcolista.
Medito, ascolto playlist rilassanti e rumori bianchi, metto i tappi nelle orecchie, le mascherine anti-luce e mi stendo, sicura che il sonno arriverà. E il sonno arriva di solito, la mia fede incrollabile soddisfatta.

SPERANZA
E dormo. Per qualche ora, non di più, dopodiché mi sveglio. Mi sveglio e allora inizio a sperare che sia solo una veglia passeggera, un rapido risveglio e che riuscirò a riaddormentarmi presto. Per la maggior parte delle volte questo non accade e quindi inizio a pensare. A tutto, qualsiasi cosa possa essere oggetto di pensiero: cosa mangerò a colazione, cosa ci faccio al mondo, che senso ha la vita, le lavatrici da fare, cosa dovrò fare l’indomani in ufficio, perchè non sono felice, perchè penso che dovrei essere felice e così via. Di solito raggiungo il climax dell’angoscia dopo un’oretta di sveglia, così speranzosa mi alzo e decido di spostarmi in soggiorno, dove da tempo staziona il mio amico notturno, lui, che condivide, insieme al fedele cane, le mie notti insonni: Baruch Spinoza.
Vorrei fare l’intellettuale chic e dirvi che ho comprato l’Etica di Spinoza per spingermi sempre più a fondo nel pensiero di uno dei filosofi per me più interessanti, (motivazioni che di fatto mi hanno spinta all’acquisto di questo tomo imponente), ma vi confesserò la verità: è un libro così noioso (e complesso e straordinario e profondo, blablabla) che lo leggo la notte per riaddormentarmi. Funziona abbastanza, ma non sempre. Quando funziona di solito mi riaddormento e riposo fino al mattino.

CARITA’
Quando non funziona, subentra l’ultima fase, quella della disperazione nera dove imploro tutti gli dei a me conosciuti di farmi riaddormentare. Imploro la carità, la carità del sonno, dell’oblio, di un pensiero superficiale, di qualsiasi cosa che possa stendere sulla mia mente un velo di nulla. Gli dei a cui mi appello di solito sono equamente insensibili, e intanto si sono fatte le quattro, pertanto le opzioni che si profilano di solito sono due: benzodiazepine (funzionano come Dio, ma sono più a buon mercato), o il risveglio completo. Cucino, stiro, lavo, guardo la televisione, scrivo e arrivo alla mattina, pronta a una nuova ed entusiasmante giornata di lavoro.

Non so se faccia bene o male dormire così poco (penso non bene comunque, ma la prendo sportivamente) fatto sta che dopo un mese d’insonnia nera, ho deciso di prendermi un’altra laurea e mi sono iscritta all’Università.
Ho pensato che tanto ho già letto metà dell’etica di Spinoza, quindi insomma, se va tutto male si frequenta l’Università di Chiara, quella notturna, insieme ai turnisti, alle prostitute, agli addetti ai supermercati aperti tutta la notte, a quelli che puliscono le strade di Milano, alle guardie mediche, ai medici di turno al Pronto Soccorso, alle madri e ai padri dei neonati, alle coppie che fanno l’amore, ai camionisti, a tutte le categorie di persone che lavorano di notte che non ho citato e agli insonni, miei cari amici, che la mancanza di sonno vi porti bene, e se non lo facesse, compratevi l’Etica di Spinoza e fatevi prescrivere l’Halcion, uno dei due di sicuro funziona!

Sliding doors

O le capocciate di testa contro il destino

La scorsa settimana ero a pranzo con un collega e mentre ci deliziavamo con insolite amenità culinarie koreane si stava discutendo sull’interessante concetto dei sospesi, ovvero di quelle situazioni che capitano sovente nella vita in cui c’è un potenziale di sviluppo che poi non si realizza creando la classica logica delle slinding doors.

Lui infatti si ricordava di una biondina conosciuta alle elementari di cui si era segretamente, o forse non segretamente, innamorato e che era rimasta sempre nei suoi pensieri come il suo grande amore di bambino. Ci pensava a volte, era persino finito a cercarla su qualche social, e aveva scoperto che era sempre bionda, piuttosto carina, viveva all’estero ed era sposata con un pezzo grosso di una multinazionale.

Il fatto di trovarsi ora felicemente sposato con la donna dei suoi sogni, di avere due splendidi bambini, e di condurre una vita faticosa ma piena, non gli impediva ogni tanto di ripercorrere il suo passato e pensare alla biondina e alle diverse slinding doors che la vita gli aveva disseminato sul cammino.

Interrogata a mia volta sui miei sospesi lì per lì ho negato di averne, un po’ perché volevo recitare la parte della donna sicura della direzione che sta intraprendendo (niente di più lontano da quella che sono, ovvero una perenne indecisa), un po’ perché ci ho messo un attimo a discernere fra le sliding doors finte (ovvero quelle situazioni che pensiamo avrebbero cambiato il corso delle cose, ma che di fatto non avrebbero cambiato nulla) e quelle vere.

18-01-2016-Sliding Doors

Sono giunta quindi, dopo infinite riflessioni a determinare due principali slinding doors della mia vita, che di base sono anche le uniche due a cui ciclicamente ripenso in maniera ossessivo ricorsiva. La prima è avvenuta alla fine del mio percorso universitario, quando dopo essermi laureata con i massimi voti alla facoltà di Lettere, la docente di Letteratura Italiana Contemporanea mi aveva invitata ad iscrivermi ad un dottorato che avrebbe seguito lei, perché a detta sua ero molto dotata per la ricerca e le materie umanistiche, e non avrei dovuto buttare questo capitale umano di cui ero depositaria.

Purtroppo ero giovane e inesperta delle faccende della vita, con una situazione familiare e personale un po’ complicata alle spalle e l’unica cosa che desideravo era essere economicamente indipendente e percorrere la mia strada. Ho quindi deciso di rinunciare al dottorato ed iniziare a lavorare in un’azienda che mi ha introdotta nell’infelice baratro lavorativo in cui mi trovo attualmente.

Uno dei miei più grandi rimpianti è situato lì, nel preciso istante in cui ho deciso di voltare le spalle allo studio, attività che mi rendeva felice e piena e ricca per entrare in un’azienda, in cui ho passato il primo anno a servire caffè nelle riunioni, e dove per la prima volta ho sperimentato la famosa frase di Gore Vidal che dice “The unfed mind devours itself”.

Mi chiedo spesso cosa starei facendo ora se invece di prendere quella decisione ne avessi presa un’altra, se sarei più o meno felice, serena o realizzata. Tento di non pensarci e mi convinco che doveva andare così, cosa che in parte è vera, perché se non avessi intrapreso le orribili strade lavorative delle aziende grosse e cattive non avrei incontrato il Regista, che ha fatto capolino nella mia vita sette anni fa in una riunione pallosissima in ufficio, in cui tutti e due eravamo così annichiliti dagli argomenti di discussione che abbiamo passato tutto il tempo a fissarci con malizia.

L’altra slinding doors è di tipo sentimentale invece, e alzi la mano chi non ne ha almeno una.

Io, che sono un’ impulsiva che si è sempre lanciata a capofitto nelle situazioni più disparate (ho collezionato una serie di casi umani come ex fidanzati che potrei scriverci dei manuali), in realtà ne ho solo una, ma è tosta, così tosta che ogni volta che ci faccio i conti vorrei che arrivasse Maurizio Costanzo e facesse partire i consigli per gli acquisti, perché nonostante siano passati lustri su lustri da quando è accaduta, quando ci penso mi vengono ancora i coccoloni.

Anche la letteratura si è interessata a questo tema sconfinato e bellissimo. Esistono diversi libri illuminanti sull’argomento, il primo che mi viene in mente è Il conte di Montecristo di Alexander Dumas, lettura che consiglio caldamente, perché di storie epiche come quella di Edmond Dantès ne sono state scritte poche e perché offre un’interessante prospettiva sul tema delle slinding doors e sul tema della vendetta. Argomento direttamente correlato in questo caso, poiché è a causa di tre uomini malvagi ed invidiosi che Edmond non solo non può sposare la donna che ama, ma si ritrova anche in prigione accusato di alto tradimento. Quando poi riuscirà a fuggire e diventerà ricco grazie al ritrovamento di un tesoro, tornerà in Francia e passerà gli anni migliori della sua vita a vendicarsi dei tre nemici, accorgendosi poi solo alla fine del libro del tempo perso e del sangue amaro che si è fatto intraprendendo questa via.

Un altro libro non meno interessante è L’amore ai tempi del Colera di Garcia Marquez, che offre un’altra visione ancora più romantica sulla questione, perché Florentino Ariza, il protagonista, ama una donna, Fermina Daza, per tutta la sua vita, anche se lei è sposata con un altro.  Solo da anziani si ricongiungono e si amano (cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese d’attesa), come non avevano potuto fare da giovani (il padre di lei aveva voluto sposasse un uomo più ricco). In questo caso Florentino non si deprime per la sua slinding doors andata, anzi la coltiva nel tempo come un fiore raro, e poi alla fine viene premiato per la sua costanza.

Vogliamo parlare poi di Cime Tempestose di Emily Bronte? Il libro più bello di sempre sugli amori infelici e mai realizzati? Heathcliff e Catherine potrebbero fare una lectio magistralis sulle slinding doors, e per quanto mi riguarda Heathcliff è maestro cintura nera nell’ossessione per l’oggetto d’amore perduto.

E voi  cari lettori, quali sono le vostre slinding doors? Siete più della squadra Dantés o Ariza? Ignorate i vostri rimpianti o li coltivate  con la delicatezza che meritano? Vi disperate come Heathcliff per gli amori passati fino a farli diventare un’ossessione?

Io lavoro tutta la settimana come una cinese con il caldo cocente che mi uccide e dilettarmi con le vostre mancate direzioni di vita mi allieterebbe certamente.

Oppure consigliatemi qualche altro libro su questo interessante tema, sono desiderosa di esplorarne tutte le sfaccettature e continuare a farmi del male, come solo io so fare.

Felicità

Albano e Romina forse lo sanno

Quando sono di cattivo umore mi avvalgo di alcuni rituali per alleviare la pesantezza che sovente si deposita sulla mia anima. Una pesantezza causata da diversi motivi, ma primariamente dal fatto che da un po’ di tempo a questa parte le mie giornate sembrano un trascorrere lento di ore inutili, dedicate ad attività lavorative per le quali non provo il benché minimo interesse.

Convincermi che a differenza di buona parte dei miei coetanei ho un lavoro a tempo indeterminato con un buono stipendio, godo di diversi benefits dati dal lavorare in una multinazionale strutturata e ho un capo abbastanza evoluto che non è difficile sopportare, non è sufficiente. Ciclicamente mi confronto con una angosciante mancanza di senso: occuparsi tutto il giorno di dati di fatturato e studiare tecniche efficaci per aumentare le vendite di prodotti inutili annichilisce e deprime il mio animo umanista.

Mi immagino la delusione di Karl Marx che mi osserva accigliato dall’oltretomba additandomi come responsabile e connivente di questo animale morente che è il capitalismo. Ho tradito gli ideali dei miei studi in Lettere e Filosofia per finire non so come a servire le bieche leggi dell’economia in cambio di un’indipendenza e sicurezza economica che senz’altro hanno un valore, ma di cui pago lo scotto a caro prezzo.

Karl Marx

Quando sto così, quando la vita sembra avere il peso specifico del piombo e mi sembra di aver sbagliato tutto, mi rifugio nei classici balsami che leniscono ogni angoscia: musica, caramelle delle Haribo, cioccolata e buone letture.

Tanto quanto non riesco a digerire i contributi di D’Avenia sul Corriere (non me ne vogliano coloro che lo amano, ma trovo alcuni suoi modi di porsi eccessivamente stucchevoli), tanto amo bazzicare sul blog di Paolo Cognetti, che da bravo uomo di montagna, senza troppi fronzoli o retoriche lascia dei contributi, rari come perle, che mi proiettano in una dimensione così distante dalla mia vita da diventare ispirazionali.

Vi invito a leggere il suo ultimo post su un vecchio montanaro valdostano. Non sono mai apologie della montagna, quanto è bella di lì, quanto si sta bene di là, ma un’analisi lucida di quello che stiamo perdendo, o abbiamo più tragicamente perso, in termini di tradizioni, rapporto e rispetto dell’ambiente e di quello che eravamo prima che il diffuso benessere convincesse tutti che bastava possedere una casa e una bella macchina per essere felici.

A questo proposito mi ha fatto riflettere la dichiarazione della donna più vecchia del mondo, una russa di 129 anni, che dice di non aver avuto mai un giorno felice in tutta la sua vita costellata da guerre, rivoluzioni, e dalla la morte del marito e dei figli. La donna ha detto che non ha fatto nulla per protrarre così a lungo questa vita di supplizi, se non mangiare poca carne, perché non le piace e bere tantissimo latte fermentato di cui è ghiotta. Quindi forse, nonostante lei neghi la presenza di felicità nella sua esistenza, ha condotto la sua vita limitando ciò che non le piaceva (mangiare carne) e abbuffandosi di quello che le piaceva (latte fermentato), seguendo in teoria il principio di piacere che ci spinge, (esclusi quelli del PD e i masochisti come me) verso le cose che ci fanno star bene.

Che poi non è forse questa la felicità?

E voi, cari sparuti lettori, cosa vi rende felici? Bevete latte fermentato, mangiate salsicce, ascoltate Albano e Romina, o leggete bei libri?

Siate sinceri che Carlo vi guarda.

Gameti in crisi

Vota anche tu per l’estinzione

Mentre l’intenso dibattito mediatico attorno alle prossime elezioni impervia, io da donna frivola quale sono, mi occupo invece di notizie più superficiali che rappresentano a mio avviso, più della faccia liftata di Berlusconi, la tragedia dei tempi che corrono.

Pare sia  stata pubblicata la ricerca di un’ equipe di medici europei che ha evidenziato come la presenza di spermatozoi presenti all’interno del liquido seminale maschile negli ultimi 40 anni sia calata circa del 40%. Un uomo americano, europeo, o asiatico, rispetto ai suoi nonni, possiede quasi la metà di spermatozoi, che sembra non si siano semplicemente ridotti in termini di numero, ma anche di qualità.

In questi ambiti, la qualità si misura in standard decisamente virili: uno spermatozoo per essere davvero macho deve essere veloce e avere grande mobilità. Ecco sembra che insieme al numero, queste due caratteristiche siano sempre meno riscontrate: i nostri amici sono lenti e di qualità scadente. Sono un po’ depressi diciamo, e quindi molto spesso la già ardua impresa della fecondazione dell’ovulo diventa una missione pressochè impossibile.

Tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere-sul-sesso-2.jpg

A questo si aggiunge il fatto che, soprattutto in Italia, l’età media della donna che si approccia alla maternità supera la trentina, dove avviene un calo fisiologico della fertilità e quindi la combo ovulo non freschissimo e spermino lento e poco motivato, determinano la cosiddetta infertilità di coppia, a cui la nostra cara ministra Lorenzin ha voluto dedicare il ben noto Fertily Day.  L’infertilità infatti provoca il temibile calo demografico: la popolazione nel tempo invecchia e la possibilità che il sistema pensionistico possa reggere a queste condizioni è improbabile.

Insomma, ci stiamo estinguendo.

Io ne sono anche abbastanza contenta vi dirò e non ne sono nemmeno stupita. Ho letto tempo fa, su una rivista americana, il parere di un ginecologo esperto in estinzioni animali. Si analizzava l’estinzione del panda, che è stata poi interrotta grazie alle tecniche di fecondazione assistita operate dall’uomo. Perché vi chiederete voi cari amici è stato necessario mettere in provetta pure i panda? Perchè gli orsetti furboni, ad un certo punto, hanno smesso completamente di accoppiarsi, e studiando il perché (anche abbastanza ovvio) di questo fenomeno, si è poi scoperto che era correlato al numero sempre più esiguo di risorse a loro disposizione.

Le foreste di Bambù sono state estirpate per far spazio all’agricoltura e i simpatici mammiferi mangioni, hanno ancestralmente smesso di accoppiarsi, perché di fronte alla mancanza di risorse per crescere la prole, la prole era meglio non esistesse. In fondo è un po’ quello che succede agli animali negli zoo, più lo spazio vitale di un animale si restringe e il suo poter essere animale nell’ambiente è impedito, più diminuisce la possibilità che avvengano accoppiamenti naturali o nascano cuccioli.

Ecco, sta tutto qui. Io credo che all’uomo stia succedendo una cosa simile. Se ci si guarda attorno la percezione è quella di mondo sempre più ostile, con risorse che nel tempo diventano sempre più limitate, e la cui corsa al procacciamento delle stesse ha condotto negli ultimi anni a un disastro nell’ecosistema che sappiamo tutti essere un processo difficilmente reversibile.

Di fatto siamo uomini, e nonostante ci si sia  convinti che indossando abiti firmati, guidando belle macchine e andando al ristorante, la nostra parte più mammifera non esista, ce lo ricordano i nostro ovuli e i nostri spermatozoi che basta, forse è il venuto il momento di farsi due domande. Perchè siamo una civiltà molto brava e puntuale nel dare risposte, ma lacunosa nel mettersi in discussione: siamo fortissimi sulle tecniche di fecondazione in vitro, ma meno bravi a creare le condizioni sociali perché queste non servano.

Non solo, sembra che si faccia sempre meno l’amore: in Svezia il governo ha realizzato un intermezzo pubblicitario in cui invitava le coppie di fronte alla televisione a spegnere l’infernale aggeggio e darsi da fare. Siamo troppo distratti dalla tecnologia e abituati all’intrattenimento passivo: anche fare l’amore diventa poco invogliante. Trovo che se siamo giunti a questo livello, l’alert sia massimo ed è  anche su queste questioni che la politica dovrebbe interrogarsi .

Non abbiamo bisogno di promesse su tasse che verranno magicamente estinte mentre dal cielo pioverà oro, o di garanzie sul benessere che gronderà a fiumi in un’orgia di lavoro e crescita del PIL: credo sia chiaro ormai che non basta quello per rendere dei cittadini felici.

Bisogna tutelare e garantire la qualità della vita, la qualità dell’ambiente in cui viviamo, avere la sicurezza che chi ci rappresenta ha davvero a cuore la sorte dei suoi cittadini e dei figli che verranno dopo di loro, e invece la politica è diventata uno show di individui narcisisti che recitano la loro piecé teatrale tentando di smantellare quello che è stato fatto nella legislazione precedente.

E così all’infinito, in un eterno ritorno da girone dantesco.

Io domenica andrò a votare, vorrei evitare tantissimo di trovarmi il Berlusca o Salvini come presidenti del consiglio, cosa che è molto probabile succeda. Domenica ho organizzato un rituale ellenico, in cui brucerò incenso e ballerò come una vestale tenendo fra le mani l’etica di Spinoza e chiedendo l’interdizione di YHWH (mi sembra un Dio più severo degli altri), nella speranza che elimini i corrotti, salvi i giusti e faccia resuscitare Ugo Tognazzi per qualche ora mentre in loop mi fa la scena della Supercazzola, solo per me.

E voi, cari amici,  come vi preparate per le elezioni?

Una donna virtuosa

L’amore in tempi di crisi

In questi giorni ho riflettuto a lungo sul tema dell’amore. Mi si è ripetutamente proposto attraverso diversi contributi: ho terminato di leggere Notre-Dame de Paris, ho visto al cinema il pluricitato “Call me by your name” di Luca Guadagnino, e complice la pressante pubblicità di San Valentino che perseguita ovunque e chiunque non ho potuto non soffermarmi a riflettere. Non tanto sull’amore in sé, ma sulla verità dell’amore, che trovo sia un punto molto più interessante.

In fondo cresciamo con un’idea dei sentimenti molto stereotipata. Film, libri, racconti ci narrano di amori passionali, struggenti, a volte maledetti, ma sempre sostenuti da questa grande forza che tutto muove. Sembra che quando siamo innamorati si perda il senno, che l’incontro con l’anima gemella abbia quasi un potenziale salvifico, ci elevi dalla mediocritas, ci renda individui migliori, riempia bocca e cuore di parole e intenzioni romantiche, bruci i nostri sensi fino a desiderare l’altro in modi che non avevamo mai sperimentato.

Di fatto è così. Non dissento, la magia dell’incontro di due anime e di due corpi crea un vortice di sensazioni e sentimenti assolutamente unici e irripetibili. Ma passata questa fase, cosa succede all’amore?

Perché se si cerca qualcosa su quello che succede dopo, i contributi crollano precipitosamente. Raccontare il delicato passaggio fra il prima e il dopo, fra un quotidiano condiviso che genera routine, con la passione che si affievolisce, e l’alterità di due individui che da elemento di interesse iniziale diventa nel tempo abisso, non è facile, nonostante di fatto sia la fase più ampia che interessa un rapporto amoroso di una certa lunghezza.

Io mi sono interrogata tanto su questa fase, non tanto perché nutra un interesse antropologico sulla questione, ma perché più egoisticamente ho vissuto in prima persona, e sto vivendo un periodo che ha messo a dura prova la mia coppia. Non saprei spiegare bene come sia successo, ma dopo sei anni di relazione e quattro di convivenza, un giorno ci siamo ritrovati ad affrontare una crisi. Non una crisi passeggera, di quelle che con due mazzi di rose e due moine risolvi tutto, ma una crisi sostanziale, di prospettive, di quelle che investono il futuro e che fanno vacillare tutto.

E in mezzo a una crisi le regole dei sentimenti cambiano. Ci si trova a navigare in un mare burrascoso in cui tutto sembra vacillare. Tutto quello che prima era naturale, diventa difficile, si sperimentano sentimenti contrastanti, fa capolino una sensazione di solitudine difficile da verbalizzare.  E qual è la verità dell’amore quando sembra che tutto quel meraviglioso tripudio di ormoni e sentimenti sia sparito?

La verità è che diventa una scelta. Al pari di quella di cambiare lavoro. Si sceglie di amare, si sceglie di restare con una persona,  si sceglie di rimescolare le carte. Sono convinta che al di là delle belle parole e dei buoni sentimenti siano gli atti pratici a determinare gli esiti di un rapporto, la capacità di mettersi in discussione, di crescere insieme, accettando ed integrando i cambiamenti dell’altro.

Questa è la fase più bella, credo: la trasformazione di un sentimento è un processo delicatissimo, molto fragile, che va protetto e difeso con discrezione, ma è l’unico processo in grado di generare qualcosa di nuovo.

modern-times-102

A questo proposito vi introduco questo bellissimo libro che inserirò nella rubrica, Libri Introvabili, o Libri non alla moda, o Libri che non legge nessuno, che si intitola “Una donna virtuosa” di Kaye Gibbons.

È un librettino di 150 pagine edito da Feltrinelli negli anni 90’, io ho ancora una versione con il prezzo il lire. Credo però che si trovi ancora in giro abbastanza facilmente  (online lo trovate qui ).

È una storia d’amore ambientata nell’America rurale degli anni ’50. La narrazione è a due voci, un capitolo viene raccontato da Jack (il marito) e uno da Ruby (la moglie). Questo escamotage, per altro gestito benissimo anche dal punto di vista del registro linguistico, regala un grado di immersività durante la lettura davvero profondo.

Il loro rapporto, che sembra non avere niente di speciale, è invece ricco di sentimenti discreti e di piccoli gesti  di grandissima tenerezza. Ci sono dei dettagli veramente commuoventi.

Ve ne riporto uno. Ruby si ammala di cancro ai polmoni (non è uno spoiler perché viene raccontato nel primo capitolo), e i mesi prima di morire passa il tempo a cucinare e surgelare in monoporzioni  i pasti del marito, in modo che Jack, per i mesi a venire dopo la sua morte a pranzo e cena,  non debba far altro che aprire il freezer e scongelarne uno. Lo fa per evitargli in futuro di sentire troppo il vuoto della sua perdita, e perchè sa che Jack odia cucinare.

Non so voi, ma a me questa cosa fa venire la pelle d’oca. Credo di aver pianto al secondo capitolo, sono già fan di Kaye Gibbons, una misconosciuta autrice americana che ha scritto pochi libri, ma che sembra siano davvero imperdibili oltre che praticamente introvabili.

Comunque il libro è zeppo di questi micro esempi di delicatezza che giorno dopo giorno costruiscono la storia di un vero e grande amore. Se vi interessasse leggerlo e vi fosse impossibile trovarlo, perchè anche voi siete appassionati di storie mai più ristampate e lasciate all’oblio, sono sempre disponibile a cedere la mia copia.

Lo trovo anche un buon regalo da fare al proprio innamorato/a, se proprio volete festeggiare San Valentino e non volete arricchire la Nestlé facendovi venire le carie con i baci Perugina.

 

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: