Quando sono di cattivo umore mi avvalgo di alcuni rituali per alleviare la pesantezza che sovente si deposita sulla mia anima. Una pesantezza causata da diversi motivi, ma primariamente dal fatto che da un po’ di tempo a questa parte le mie giornate sembrano un trascorrere lento di ore inutili, dedicate ad attività lavorative per le quali non provo il benché minimo interesse.
Convincermi che a differenza di buona parte dei miei coetanei ho un lavoro a tempo indeterminato con un buono stipendio, godo di diversi benefits dati dal lavorare in una multinazionale strutturata e ho un capo abbastanza evoluto che non è difficile sopportare, non è sufficiente. Ciclicamente mi confronto con una angosciante mancanza di senso: occuparsi tutto il giorno di dati di fatturato e studiare tecniche efficaci per aumentare le vendite di prodotti inutili annichilisce e deprime il mio animo umanista.
Mi immagino la delusione di Karl Marx che mi osserva accigliato dall’oltretomba additandomi come responsabile e connivente di questo animale morente che è il capitalismo. Ho tradito gli ideali dei miei studi in Lettere e Filosofia per finire non so come a servire le bieche leggi dell’economia in cambio di un’indipendenza e sicurezza economica che senz’altro hanno un valore, ma di cui pago lo scotto a caro prezzo.
Quando sto così, quando la vita sembra avere il peso specifico del piombo e mi sembra di aver sbagliato tutto, mi rifugio nei classici balsami che leniscono ogni angoscia: musica, caramelle delle Haribo, cioccolata e buone letture.
Tanto quanto non riesco a digerire i contributi di D’Avenia sul Corriere (non me ne vogliano coloro che lo amano, ma trovo alcuni suoi modi di porsi eccessivamente stucchevoli), tanto amo bazzicare sul blog di Paolo Cognetti, che da bravo uomo di montagna, senza troppi fronzoli o retoriche lascia dei contributi, rari come perle, che mi proiettano in una dimensione così distante dalla mia vita da diventare ispirazionali.
Vi invito a leggere il suo ultimo post su un vecchio montanaro valdostano. Non sono mai apologie della montagna, quanto è bella di lì, quanto si sta bene di là, ma un’analisi lucida di quello che stiamo perdendo, o abbiamo più tragicamente perso, in termini di tradizioni, rapporto e rispetto dell’ambiente e di quello che eravamo prima che il diffuso benessere convincesse tutti che bastava possedere una casa e una bella macchina per essere felici.
A questo proposito mi ha fatto riflettere la dichiarazione della donna più vecchia del mondo, una russa di 129 anni, che dice di non aver avuto mai un giorno felice in tutta la sua vita costellata da guerre, rivoluzioni, e dalla la morte del marito e dei figli. La donna ha detto che non ha fatto nulla per protrarre così a lungo questa vita di supplizi, se non mangiare poca carne, perché non le piace e bere tantissimo latte fermentato di cui è ghiotta. Quindi forse, nonostante lei neghi la presenza di felicità nella sua esistenza, ha condotto la sua vita limitando ciò che non le piaceva (mangiare carne) e abbuffandosi di quello che le piaceva (latte fermentato), seguendo in teoria il principio di piacere che ci spinge, (esclusi quelli del PD e i masochisti come me) verso le cose che ci fanno star bene.
Che poi non è forse questa la felicità?
E voi, cari sparuti lettori, cosa vi rende felici? Bevete latte fermentato, mangiate salsicce, ascoltate Albano e Romina, o leggete bei libri?
Siate sinceri che Carlo vi guarda.