Meglio tardi che mai

Benedetto Kent Haruf e chi lo legge

Come penso si possa evincere, ci ho messo un po’ a riprendermi dai risultati elettorali. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso da quello che in realtà si è palesato, ma chi mi conosce sa che sono un’inguaribile romantica e spero sempre che la società mi possa stupire con inattese e sporadiche manifestazioni di buon senso. Questo non è accaduto e mentre meditavo sulla prossima estinzione della civiltà italiana, sono arrivate le consultazioni al Quirinale, un brutto raffreddore, il Burian, gli sbalzi di temperatura e soprattutto un cambio di mansioni lavorative che mi è cascato sulla testa come il martello di Odino causandomi molto stress.

Insomma, la vita, o il caso, non sa gestire in maniera equa gli avvenimenti che dissemina nell’esistenza di un individuo: o somministra periodi di noia mortale o ti punisce con mesi in cui capita tutto allo stesso momento e tu ti senti come un ciottolo trasportato da una corrente nemica.

Ad ogni modo, nonostante il mio piccolo mondo antico  abbia subito scossoni, non ho smesso di dedicarmi all’attività per cui sento di essere più portata, ovvero la lettura. Essendo una pessima sportiva, una ancor peggior cantante, una cuoca pasticciona e una fidanzata non sempre di facile gestione trovo un sommo piacere e un certo riscatto nell’attività della lettura, dove posso dimostrarmi pigra ma impegnata senza essere redarguita per la mia attitudine all’inattività.

In questi mesi, mentre tutto attorno a me cambiava in modo confuso, ho intrapreso la lettura di un libro acquistato tempo fa che stazionava nella mia libreria e di cui rimandavo la lettura da tempo per diverse ragioni. La prima è che non amo fiondarmi sui cosiddetti fenomeni letterari, e quando tutti mi dicono di leggere un libro finisco per insospettirmi, anche se molto spesso il libro in questione è veramente valido.

Secondariamente preferisco approcciarmi ad un’opera quando tutto il chiacchiericcio che le si genera attorno è scemato e si può ragionarne con maggiore calma.

Sono approdata quindi a Kent Haruf in ritardo di circa due anni dall’uscita del primo libro della Trilogia della Pianura, “Benedizione” (in realtà sarebbe il terzo libro della trilogia, ma è stato il primo ad essere pubblicato in Italia rispetto agli altri), quando tutti l’avevano già letto e assimilato, quando tutto era già stato detto insomma.

E credo dunque che l’unica cosa interessante da dire su questo libro riguardi cosa succede quando si finisce di leggerlo.

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La trama in sé è piuttosto semplice e abbraccia circa un mese di tempo, da quando il protagonista Dad Lewis scopre di avere un cancro a uno stadio terminale che lo condurrà di lì a poco alla morte.

Dad vive a Holt, una piccola cittadina del Colorado: è estate, il caldo è torrido, tutto appare lento, vischioso, rarefatto dal calore. Le persone, gli eventi e persino la natura si muovono lungo traiettorie indolenti, appesantiti dalla calura e dalla sensazione di immobilità e morte che è tipica delle estati calde.

Niente muta, tutto è statico, solo dei brevi temporali estivi irrompono, portando pioggia e frescura. In questa specie di inferno dolce si snoda l’ultimo mese di vita di Dad, che accudito dalla moglie Mary, l’amore della sua vita, e da Lorraine, la figlia, si avvicina alla morte senza azioni eclatanti, aspettando solo di spegnersi, seduto sulla sua poltrona preferita. Attorno a lui una serie di personaggi e le loro storie si intrecciano in un mosaico perfetto, costruendo la vita di questa piccola cittadina americana.

L’esperienza di lettura è molto immersiva perchè la prosa riflette gli ambienti e le situazioni che vengono descritte: appare scarna ma intensa nella sua essenzialità, così come lo è Holt: grandi pianure, spazi ampi, montagne aspre, emozioni dilatate. Haruf manipola la scrittura alla perfezione, spogliandola di qualsiasi abbellimento e fronzolo, come se volesse arrivare al cuore della verità.

Perché cosa si può raccontare di un uomo che sta morendo?

Probabilmente molte cose, ma Haruf decide di soffermarsi su quelle apparentemente più insignificanti, dettagli che costruiscono la vita giorno per giorno, senza stridore o urla. C’è l’amore di una vita, non quello romantico, ma quello che fino all’ultimo resiste anche nelle situazioni più disperate, c’è la morte che non segue nessuna legge o stagione, ci sono i rimpianti, gli errori, i tradimenti.

Non voglio dirvi cosa troverete in quelle pagine, ma vi posso garantire che una volta finito di leggerlo Dad Lewis resterà con voi.

Ci penserete mentre state iniziando un nuovo libro, tornerete a pensarci dopo settimane, forse riaprirete il libro, nella pagina che avevate segnato. Farete fatica a rimetterlo in libreria e staccarvi da lui, vorrete leggere subito tutti gli altri libri di Kent Haruf e per una volta darete ragione a tutti quelli che gridavano al capolavoro.

Last but not least, aspiranti scrittori, se volete una bella lezione sui dialoghi è il libro che fa per voi perchè costituito per il 70% proprio da dialoghi. Può piacere e non piacere, (io non sono una grande amante del dialogo protratto, ma mi sono dovuta ricredere) ma è un grande esercizio di stile costruire un libro con questa originale struttura.

Se non vi ho ancora convinti, sappiate che ho letto da qualche parte che se leggete Kent Haruf vi danno il reddito di cittadinanza. Io non so, voi, ma mi informerei.

Leggere Hugo in metropolitana

187 anni e non sentirli

Io sono una grande lettrice di classici. Mi piacciono per tutta una serie di motivi che ci metterei una vita ad elencare, ma che in sintesi si rifanno al senso di alterità che un libro, ma anche un’opera musicale o artistica, mi sanno trasmettere. Sono poco interessata alla modernità, forse perché esperendola in prima persona presumo (arrogantella!) di avere già gli strumenti per codificarla e quindi investo il mio tempo a confrontarmi con qualcosa di nuovo.

I classici, da questo punto di vista sono perfetti: ti scaraventano in epoche che non esistono più, in contesti completamente differenti da quelli odierni, utilizzando una forma linguistica molto diversa dal linguaggio attuale,  raccontando però esperienze  e sentimenti che sono universali. Leggere un classico è un viaggio, molto spesso frustante o difficile, ma che ripaga di grandissime soddisfazioni, anche perché insomma se un libro è assurto a questo status di certo non l’ha scritto Moccia o Trapattoni.

Tutta questa bellissima intro, nella quale mi sono impegnata tantissimo per dimostrarvi che so anche argomentare in modo puntuale (lo faccio sempre per dimostrare alla mia insegnante delle medie che alla fine ce la posso fare), per dire che da qualche tempo mi sono imbarcata nella lettura di “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo.

Ho scelto il buon Hugo perché non avevo mai letto niente di suo e questo non mi faceva sentire bene. Hugo ci ha regalato dei personaggi  e delle storie epiche, che io avevo incrociato in film, cartoni e opere teatrali e ho voluto cimentarmi in questa lettura per capire perché la storia di Quasimodo e la Esmeralda, è diventata una delle vicende più rappresentate della storia.

Devo dire che nonostante non l’abbia ancora finito, l’ho capito. Il libro è considerato un’opera giovanile,  viene pubblicato quando Victor è un pischello, ha 29 anni, e la critica ritiene che vi siano diversi errori commessi dallo scrittore nella stesura del romanzo, tra cui una certa attitudine al citazionismo in latino, capitoli interi pieni di personaggi della storia parigina che non hanno nulla a che fare con la vicenda, sezioni interamente dedicate a riflessioni sull’architettura, alla stampa, e a Parigi.

Insomma non una lettura facile: la trama è costantemente interrotta e non mancano i momenti in cui ti chiedi quando finirà il capitolo su Gutemberg o sull’architettura romanica. Non vi parlo nemmeno del plot, che immagino tutti conosciate, ma arrivo direttamente a ciò che mi preme dire, ovvero che tenendo duro su queste “piene letterarie” di informazioni, arriva il meritato premio.  I capitoli dedicati allo sviluppo vero e proprio della trama, sono infatti dei capolavori, i personaggi sono descritti in modo magistrale, sono sfaccettati, ambigui, trasudano emozioni, hanno delle caratterizzazioni perfette.

Anche Dickens è un maestro nel dare vita ai personaggi, però i suoi molto spesso sono delle macchiette, o comunque c’è sempre un certo pudore British nei suoi libri che ti impedisce un coinvolgimento pieno nella vicenda.

Hugo è più intenso, sensuale direi, a volte anche sessuale, e questo rende la sua scrittura davvero forte. C’è un pezzo dove per descrivere Quasimodo che suona le campane, lo descrive come un demone che cavalca la campana grande della torre di Notre Dame, Marie, e la campana risponde al suo tocco nitrendo,  impennandosi e dimenandosi. Non è forse una chiara allusione a un rapporto amoroso tra due persone?

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In alcuni tratti invece ti annienta, c’è ad esempio un capitolo in cui Quasimodo è sottoposto ad un interrogatorio alla Prefettura di Parigi. Quasimodo è sordo e semi muto e il giudice che lo interroga è sordo pure lui, quindi c’è questo dialogo grottesco che in parte è comico, ma in parte ti uccide, perché tutti ridono, lanciano patate e immondizia sul gobbo,  incitano il giudice.  Vi viene la pelle d’oca, garantito.

Lo adoro questo francese. É capace di passare da un registro drammatico a uno comico in zero secondi.  Di parlare di filosofia, architettura, alchimia e scienza così, come se ci fosse già nato con tutta questa conoscenza. E aveva solo 29 anni. Io a 29 anni ero impegnata a combattere l’idea di entrare nella vita adulta ed ero turbata all’idea di fare un finanziamento per comprarmi la macchina.

Per altro ho scoperto grazie a lui che Nicolas Flamel, noto a tutti grazie alla famosa citazione in Harry Potter, in realtà è stato per davvero un alchimista francese famosissimo che si è dedicato alla ricerca della pietra filosofale. Magari voi lo sapevate già, ma io no. Forse la Rowling è incappata in Flamel proprio leggendo Notre-Dame de Paris.

Nel caso tu o Rowling, non l’abbia letto, e dovessi capitare sul mio blog, fallo perché merita.

Fatelo tutti, perché potrebbe essere un’esperienza che non vi cambia la vita, ma di sicuro la emoziona, e visto che siamo tutti alla ricerca di emozioni, invece di farlo in modi stupidi, facciamolo usufruendo di queste pagine, che hanno 187 anni, ma vi garantisco, non li dimostrano affatto.

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