Depressione post-rientro

Da Klimt al Bricocenter

Ci ho messo una settimana a riprendermi dallo shock per la fine delle vacanze e il mio rientro in ufficio. Ho avuto una sequela di sintomi che non ve li racconto, culminati con umori ballerini e voglia repentina di cambiare vita/lavoro/città, se possibile in un’unica formula.

Mentre preda della più cupa disperazione tentavo di affrontare la situazione appellandomi a tutta la farmacologia da banco disponibile, Il CorrieredellaSera.it, mio compagno delle giornate più nere, è venuto in soccorso pubblicando giusto pochi giorni fa una lista delle cose da fare per non incappare nella depressione post rientro.

La lista, sulla quale non avevo grandi aspettative, si è rivelata abbastanza inutile. Aveva uno stile che si collocava a metà fra i consigli della nonna e quelli di Luciano Onder. In alcuni punti il tono si faceva così aziendalista da farmi temere che questa sequela di consigli fossero in realtà redatti da qualche multinazionale cattiva e un po’ inquietante, come la Monsanto o la Bayer.

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Di tutti i consigli poco efficaci presentati, tipo dormi otto ore, ricordati di essere sempre grato di quello che hai, abbraccia i tuoi colleghi e sorridi alla vita, ce n’era uno che mi è sembrato l’unico salvabile e che ho pensato di applicare alla mia situazione, anche con un certo entusiasmo.

Sembra infatti che il rientro sia più dolce, se si mantengono vive le abitudini che ci hanno fatto bene in vacanza e che tendiamo ad accantonare una volta rientrati alla quotidianità. Anche questo a dire il vero sembra un consiglio alla Paolo Crepet, però ho voluto dargli una chance e  ho quindi pensato di progettare il primo week-end di rientro dalle vacanze con attività e gite che sarebbero culminate con la visione della mostra Klimt Experience che c’è al Mudec di Milano.

Non so che cosa sia esattamente questa Klimt Experience, ma pare sia una sorta di mostra interattiva-immersiva con i quadri proiettati sui soffitti, buio e musica di accompagnamento. Una cosa bella, da fare, per chi come me adora la Secessione Viennese.

Ho quindi acquistato il biglietto in prevendita, garantendo a me e al Regista un’entrata snella e priva di coda. Peccato che il destino baro alla mostra non ci abbia fatto arrivare, nonostante i trenta euro non rimborsabili della prevendita avrebbero convinto anche nostro Signore  della bontà di non farci mancare all’evento.

Una congestione fulminante ha costretto il Regista al divano, rantolante e con un colorito ceruleo da rigor mortis. La colpa è stata ovviamente sua, visto che con una parmigiana di melanzane sullo stomaco, un tiramisù e svariati biscottini, ha deciso di portare il cane a passeggio in canottiera, incurante del calo di temperatura portataci dal sempre benvoluto  ciclone Poppea.

Depressa, arrabbiata e con poca voglia di occuparmi del consorte, mi sono trovata a girovagare sotto casa come un’anima in pena cercando di ritrovare il senso perduto della mia domenica. Purtroppo non l’ho trovato, sono solo incappata nel Bricocenter del quartiere, un posto orribile, la patria del bricolage per i depressi, dove ebbra di disperazione ho acquistato una scopa, dei sacchi per la spazzatura e dei panni in microfibra per la casa, che si sa, se ne ha sempre bisogno.

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Non so che cosa avrebbe pensato l’autore dell’articolo sul Corriere del mio tentativo fallito di nobilitare la prima domenica di rientro dalle vacanze.

Io so solo che a quella lista inutile di consigli, mancava quello più importante di tutti: copritevi lo stomaco e evitate i Bricocenter.

Arcipelago Vacanze

Consigli di non-lettura estivi

E anche per Miss Chorrì è giunto il momento delle agognate vacanze. A onor del vero sto ancora lavorando, godendomi  con pochi altri sventurati esseri umani questo infernale caldo sahariano e gli ultimi interminabili giorni di lavoro. Quelli a cui arrivi trascinandoti sui gomiti e che nonostante speri passino velocemente sono lenti come le attese dal medico.

Quest’anno mi confronterò con un viaggio inusuale rispetto alle classiche mete marine: facendomi beffe del terrorismo, dei roghi e della Brexit fra qualche giorno mi recherò in Inghilterra. Non ci andrò da sola, accanto a me ci sarà il fedele Regista e un gruppo di amici, con i quali partiremo per un viaggio mistico naturalistico in Scozia. Attraverseremo le Highlands cantando Lorena McKennit, bivaccheremo nella natura osservando la fauna locale, che da un anticipo che mi sono concessa su Google sembra simpatica e dotata di molto pelo.

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Visiteremo castelli, ci recheremo al lago di Lochness come tutti i turisti, suoneremo le cornamuse e compreremo dei kilt come souvenir. Sono decisamente entusiasta di questo viaggio,  fuggire dal caldo che attanaglia la bella Penisola e confrontarmi con temperature decisamente inferiori è già motivo di gaudio. Inoltre in controtendenza  con il fenomeno  dei “lettori estivi” probabilmente avrò poco tempo per leggere visto che sarò impegnata a sopravvivere in mezzo alle brughiere con una tenda della Decathlon. Cosa di cui sono contenta.

In questi giorni infatti ho avuto molto di riflettere su come non solo per la musica, anche per la lettura, l’estate si presti ai tormentoni estivi. Consigli di lettura, playlist di lettura, “quest’estate leggerò 241341 libri”, insomma chi più ne ha più ne metta. Come se aumentare il numero di libri o bearsi dello status di lettore in spiaggia determinasse un’elevazione  del soggetto dal popolo che invece in spiaggia gioca ai racchettoni.

Io sono dell’idea che le vacanze corrispondano un po’ al Carnevale. È l’unico momento dell’anno in cui a fronte di un lavoro che occupa praticamente il 90% del tempo delle nostre vite, possiamo disporre delle nostre giornate nel modo in cui lo riteniamo opportuno.

C’è chi mangia, chi gioca ai racchettoni, chi fa le parole crociate, chi legge, chi ascolta la musica, chi fa sport, chi tutte queste cose insieme. L’errore, il classico errore borghese all’italiana, è quello di rendere snob un’attività, il leggere, che è tutto fuorché speciale. Anzi è una delle prime cose che impariamo. E quindi si aprono le porte ai consigli di lettura estivi, alle liste di quindici/venti libri letti in due ore e un quarto in spiaggia, in una specie di maratona inutile dalla quale quest’anno mi tolgo con piacere.

Ho deciso infatti di leggere il meno possibile durante le mie vacanze, di godermi il mio compagno, la natura, gli amici e di non isolarmi come faccio molto spesso con in mano un libro.

Mi porterò certamente qualcosa da leggere prima di addormentarmi, ma  che resti soave leggero e poco impattante. Niente rapimenti alla Celine o sindromi di Stendhal autistiche. Quelli li tengo per i miei tragitti in metropolitana, per le pause pranzo in solitudine o per i week end milanesi novembrini.

Ebbra di questa libertà, consiglio anche a voi, o mio pugno di lettori, di chiudere i libri e stare con la vostra famiglia, giocare con i vostri figli, conoscere persone nuove, simpatizzare con il vicino di ombrellone, parlare con gli anziani,  fare l’amore. Chiudere il mondo cartaceo per aprirsi a quello reale, almeno d’estate, quando tutto sembra più bello.

Forse.

 

The young Baricco

E le camicie arrotolate sui bicipiti

Ultimamente nutro una vera e propria passione per la letteratura ceca. In realtà sono piuttosto ciclica nelle mie fasi: prima c’è stata la fase Americana, poi quella Sudamericana, poi quella Medio-Orientale a da tempo ha fatto capolino quella ceca.

Il responsabile di questa passione unilaterale, perché non credo che l’elite culturale ceca mi conosca è Boumil Hrabal.

Fatico molto a scrivere di lui, perché ho un rapporto speciale con questo ometto con il vizio dell’alcolismo. Forse perché non è conosciutissimo e mi piacerebbe che questa cosa restasse così e che le sue parole non fossero oggetto di critiche e di giudizi approssimativi. La sua figura è infatti controversa, e il suo problema con l’alcolismo ha portato a facili giudizi sulla sua scrittura, molto spesso ridotta a un effetto collaterale delle sue frequenti sbornie.

In verità non è autore facile da approcciare perché scrive seguendo un flusso di coscienza, con tutte le implicazioni del caso, scarsa punteggiatura e pensieri che si sovrappongono in modo rutilante. All’interno di questo panorama confuso, però si trovano delle perle di rara bellezza e verità, che sono impossibili da dimenticare. Chi legge Hrabal, lo può odiare o amare, ma non se lo dimenticherà mai. C’è tanta di quell’umanità nelle sue parole che raramente l’ho ritrovata in altri testi.

Il merito di questa scoperta letteraria, motivo per il quale nutrirò sempre una sorta di vaga gratitudine nei suoi confronti è stato, invero, Alessandro Baricco.

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C’è stato un tempo infatti, in cui lo ammetto candidamente, Baricco mi piaceva come scrittore. Ero poco più che ventenne e i suoi capelli mossi e il suo proverbiale eloquio mi avevano stregato. Un giorno preda di un sortilegio ormonale, ho trovato su Youtube degli estratti di un programma, “Picwick. Del leggere e dello scrivere”,  che lui presentava in Rai a metà degli anni 90.

Era un programma dedicato alla lettura, dove venivano letti e commentati degli spezzoni tratti da opere varie che un giovane Baricco dai folti capelli bruni recitava con passione. Inutile dire che ero completamente rapita da quest’uomo che ai miei occhi riusciva  a coniugare bellezza, fascino e cultura. Guardai tutto il programma e proprio durante una puntata venne presentato il romanzo icona di Hrabal: “Una solitudine troppo rumorosa”. La storia è semplice ma di una delicatezza straordinaria. Invece di riassumervela, potete trovare qui il famoso video in cui Baricco con camicia bianca arrotolata sui bicipiti mi ha convinta a leggerlo e mi ha consentito di incontrare questo scrittore straordinario. Dovete solo ascoltare i primi dieci minuti perché il libro viene presentato all’inizio puntata. Poi se vi piace la puntata potete pure guardarvela tutta, eh.

Se Baricco riuscirà a convincere anche voi, forse siete donne e le camicie arrotolate sui bicipiti degli uomini hanno su di  voi lo stesso ascendente che hanno su di me. In ogni caso sento di aver fatto una buona azione a condividere con voi questo fatto di Hrabal. Se poi avete del tempo durante queste sere estive, vi consiglio di riguardarvi tutto il programma, che è interessante e fatto bene, e ci  ricorda che c’è stato un tempo in cui Rai si faceva ancora intrattenimento di qualità. Adesso abbiamo Paola Perego e la Balivo, ma chissà forse ce le meritiamo anche.

Se poi vi venisse voglia di leggere Hrabal, spero lo amiate tanto quanto lo amo io e spero che un po’ della sua dolcezza struggente entri nelle vostre vite e  lasci il piccolo segno che ha lasciato nella mia.

Se lo odierete, sappiate che la maledizione di Baricco in camicia vi perseguiterà fino a che non vi iscriverete alla Scuola Holden e non verrete aggiunti forzatamente al gruppo di WhatsApp della vostra classe.

 

Lo spleen spiegato ai bambini

Come erudire le nuove generazioni

Nonostante mi sarebbe piaciuto in questa vita essere un’icona di saggezza e conoscenza, una sorta di versione meno piumosa e più slanciata della famosa nottola di Minerva,  a cui il mondo potesse rivolgersi  per invocare la luce della conoscenza nel buio della ragione, la verità è che no, non lo sono. Conosco per approssimazione e per studi pochissimo della vastità dello scibile umano e  quel poco che so a volte lo confondo creando dei pastiche improbabili di concetti e citazioni. Dentro di me però c’è un Baricco che scalcia, e per accontentarlo compenso offrendo le mie perle letterarie alle categorie più deboli che prendono come oro colato qualsiasi cosa dica, tipo bambini, cani, colleghi tamarri, e così via.

La scorsa settimana infatti ho insegnato a mio nipote, di anni cinque, la parola spleen. Lo vedevo pensieroso, triste e annoiato allo stesso tempo e quando alla mia domanda su cosa avesse, la risposta è stata “Non lo so zia, ma mi sento molto triste”, gli ho detto che forse aveva lo spleen. Completamente ignara della risonanza che questo avrebbe avuto su di lui, e massimamente ignorante sul funzionamento dei bambini e sul gaudio che provano ripetendo le stesse parole migliaia di volte, non solo gli ho detto che aveva lo spleen, ma che sarebbe stato molto bello se lui avesse usato questa parola ogni qualvolta si fosse sentito così.

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Mai ci fu azione più ingenua e azzardata: da quel momento a oggi mio nipote non fa altro che dire a tutti che ha lo spleen, se non vuole mangiare ha lo spleen, se non vuole lavarsi i denti, ha lo spleen, se non vuole andare all’asilo, ha lo spleen. Non contento, spinto dalla verità della conoscenza, ha pensato di condividere questa scoperta con i suoi compagni d’asilo e ora un gruppo di dieci bambini dai tre ai cinque anni, si rifiuta di fare qualsiasi attività imposta dal mondo adulto invocando lo spleen. Spleen che diventa Plin, Plic, Splic, Splin, a seconda della capacità oratoria dell’infante.

Non so se Baudelaire sarebbe stato contento d’essere il poeta e filosofo più amato della classe “Canguri” del nido Gioiosa, ma mi sembra comunque di aver compiuto una buona azione aprendo le menti duttili di questi bambini a un concetto così importante, anche se a un certo punto ho nutrito dei dubbi sulla natura del vero umore di mio nipote: spleen o tedium vitae?

Sicuramente il tedium vitae l’ho fatto venire ai genitori che ora dovranno gestire questa situazione e che forse mi odieranno e mi faranno delle macumbe che si andranno a sommare alla mia situazione di disagio estivo meneghino. Non so voi, ma non mi vedo bene.

Per chi non lo sapesse, il signore in foto è Charles Baudelaire. In realtà non lo sapevo nemmeno io, poi dieci minuti fa ho deciso di cercare che faccia avesse e l’ho trovato. In realtà sembra anche uno simpatico e gioviale dall’espressione, magari lo spleen era tutta un’invenzione modaiola, chissà.

I quarantanove racconti

Chissà perché non cinquanta, caro Hemingway

Recensire una raccolta di racconti, è molto difficile. Soprattutto quando i racconti sono quarantanove, e non due o tre. A questa difficoltà primigenia si aggiunge anche il fatto che io non sopporto le recensioni dei libri, o almeno non quelle che riportano i riassunti delle trame, infarcite di  citazioni tratte da interi blocchi di testo, chiuse da qualche giudizio estetico sulla bontà del leggere il tal libro. Non le sopporto, mi fanno venire l’orticaria. Quindi non le leggo. Mi piacciono però quelle che al bando tutto questo stile da quarta di copertina tentano di spiegarti cosa c’è dietro quel libro. Cosa si trova al di là dell’ovvio, aprendoti un piccolo spiraglio su ciò che si trova sotto la punta dell’iceberg. Infusa da questa sacra missione, oggi mi cimenterò nella titanica impresa di illustrare quello che ho intravisto io nei quarantanove racconti di Hemingway. Lo faccio, visto che sono una furbetta, scomodando quel sacro mostro di Louis Ferdinand Celine. Perché direte voi? Perché trovo che entrambi abbiano dei tratti di assonanza, in prima istanza sono nati entrambi nello stesso periodo, Hemingway nel 1899 e Celine nel 1894, entrambi si sono trovati al fronte durante una guerra mondiale e entrambi hanno parlato della vita come io trovo nessuno abbia mai fatto.

Quando lessi Viaggio al Termine della Notte, sei anni fa circa, ero al mare con il Regista, che ai tempi era una new entry della mia vita sentimentale. Iniziai il libro convinta che non sarei riuscita ad andare oltre le venti pagine, e invece, dopo aver superato le prime difficoltà, mi trovai di fronte a qualcosa che non avevo mai visto, del materiale incandescente che mi rapì in una sindrome di Stendhal epica. Il Regista, che si immaginava vacanze scoppiettanti con la sua nuova fiamma, si ritrovò con una nerd con librone appresso che non faceva altro che leggere ed ignorarlo. Immaginate il dramma. Comunque quell’estasi di rapimento avvenne perché lì, su quelle pagine, io ci avevo trovato la vita. Quella vera, miserevole, fatta di sofferenze, di vuoti, di gente povera e disperata, descritta in un modo che ti colpiva come un pugno allo stomaco. Tutt’ora se qualcuno mi chiede qual è uno dei libri per me più significativi, rispondo Viaggio al Termine della Notte. Tornando però ad Hemingway, perché è di lui che volevo parlare, direi che lì fra le pagine di questi quarantanove racconti, l’ho intravista di nuovo la vita.

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Un’altra faccia del vivere, quello dell’adrenalina, delle battute di caccia, della boxe, delle corride, dell’alcool, delle corse di cavalli  e della guerra. Un altro modo di vedere e sentire il mondo, meno ostile di quello di Celine e più da esperire, nonostante la violenza e la durezza dell’esperienza umana. Il tutto descritto con una prosa asciutta, intensa, che non si perde in inutili fronzoli e arriva dritto al cuore di chi legge. Il punto di vista è perlopiù maschile, tutti i personaggi infatti sono uomini, e questo dona un’impostazione alla narrazione piuttosto caratterizzata. Considerato che la mia vita è quanto di più lontano si possa immaginare dall’avventuroso,  la lettura è stata un viaggio straordinario e poter immaginarmi in Africa mentre in realtà avevo l’ascella del vicino in metro che mi molestava, è stato in questo mese una possibilità di astrazione molto importante per la sottoscritta.

Non tutti i racconti sono significativi allo stesso modo, ma tutti lo sono se si considerano le piccole perle letterarie o di contenuto che hanno in sé. Ero perplessa sul fatto che potessi interessarmi alla boxe, o alla pesca, o alle corride, ma mi sono dovuta ricredere. Ora mi sento preparata su argomenti di cui prima ignoravo l’esistenza, oltre ad aver potuto studiare ancora più nel dettaglio la struttura narrativa del racconto, attività in cui ogni tanto, quando Saturno entra in quadratura con Plutone retroattivo a Venere, mi cimento. Non vi elencherò i racconti che mi sono piaciuti di più perché fa un po’ lista della spesa e poi comunque qualora vi venga voglia di leggerli è bello avere l’effetto sorpresa.

Mi sono resa conto di aver dato un’impronta molto seria alle cose che ho detto, ma non me la sentivo di prendere in giro Hemingway con le mie solite scemenze. Mi sarei giocata quel poco di karma intonso che mi è rimasto e questo forse avrebbe precluso le mie già scarse possibilità di pubblicare un giorno sulla Gazzetta di Bitonto qualcosa proveniente dalla mia penna.

Ora invece questa possibilità è ancora aperta: come insegna Berlusconi mai chiudere definitivamente la partita.

Maschi

Appunti a favore della categoria

Mi concederò, in linea con lo spirito generalista del mio blog, un piccolo excursus puntuale su ciò che penso in merito all’annosa questione della differenza di genere: quest’infinita partita di calcio senza arbitro fra uomini e donne, dove non ho ancora chiaro cosa si disputi, ma che genera paradossalmente scontri  dai connotati tragici.

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Questa fugace riflessione che ora vi illustro è stata ispirata da una scena a cui ho assistito in ufficio  e che mi ha lasciato perplessa e basita al contempo. In sintesi, collega A si lamentava con collega B di un uomo. In pochi minuti, quello che già era un discorso urticante e privo di senso in merito alla superficialità e idiozia maschile è diventato un j’accuse pieno di volgarità e livore, ricco di  epiteti che neanche un veneto nei suoi momenti migliori avrebbe potuto equiparare. (Un racconto geniale sul ruolo della bestemmia  per i veneti lo trovate nel libro di Tiziano Scarpa, Occhi sulla Graticola). Demente, coglione, rincretinito, viscido, impotente, sono solo alcuni dei gioiosi  termini che ho potuto ascoltare. Io le osservavo, dall’esterno e vedevo queste due donne, ormai adulte e sulla quarantina, avvelenate, rabbiose, incupite e volgari che ponendosi ad un livello senz’altro migliore dell’uomo in questione si sentivano legittimate ad esprimersi in tal modo.

Io sono stata pusillanime, lo ammetto e non sono intervenuta. A mia discolpa posso dire che ho temuto per la mia vita. Forse avrei potuto essere aggredita, o mutilata, o tutte le due cose. Temendo comunque un’aggressione verbale, sono stata zitta e ho incassato il colpo. Ho incassato il colpo e ho pensato che io gli uomini li stimo e che anzi, escludendo ovviamente gli assassini, i manipolatori, gli stalker, gli stupratori e gli esibizionisti, ho vissuto dei momenti indimenticabili in loro compagnia e da loro sono stata, e sono, molto amata.

Lasciamo stare il papà, che se una ha la fortuna di averne uno buono, la vita parte già in discesa, ma a seguire per la maggior parte ho incontrato degli uomini che mi hanno fatto star bene. Ho incontrato anche quelli che mi hanno spezzato il cuore, fatto piangere, tradito e usato (Matteo Foresti, il primo ragazzino di cui mi innamorai follemente, di anni 10, mi rifiutò dicendo che non poteva amare una che non leggeva i libri game), ma a conti fatti la bilancia pende più verso il positivo piuttosto che il negativo.

Non entrerò nel panegirico su come la donna è stata trattata nei secoli, su come attualmente è trattata in alcuni Paesi e sui casi di femminicidio che sono all’ordine del giorno. C’est  une verité de la Palice, come direbbero i francesi, e ogni singolo caso in cui una donna viene umiliata, picchiata, manipolata e uccisa, va condannato con la massima pena. Per fortuna la maggior parte degli uomini non è così, e visto che già ci fanno una capa tanta su quello che va male nel mondo, parliamo per una volta di quello che invece funziona.

Ecco quindi una breve lista  (non esaustiva) di qualità o attributi maschili che io apprezzo:

  1. L’humor. Sto per dire una cosa molto impopolare, per cui verrò insultata dal gentil sesso, ma gli uomini tendenzialmente hanno più senso dell’umorismo delle donne.
  2. Il pragmatismo. Detta anche la capacità di azione in situazioni in cui la donna tende a perdersi nei suoi iperurani mentali e iperventilare.
  3. La protezione. Perché a volte quando stai fra le braccia dell’uomo giusto senti che niente di male ti potrà mai succedere.
  4. La virilità. Non aggiungerei altro perché siamo in fascia protetta.
  5. La dolcezza. La dolcezza maschile esiste, ed è estremamente pura. Certo le mie colleghe acide forse non l’hanno conosciuta e me ne dispiaccio per loro.
  6. Il testosterone. È un ormone meno menoso degli estrogeni. Vedi già il nome: testosterone è singolare, gli estrogeni sono necessariamente plurali.

Potrei continuare , ma questo post è già maledettamente lungo e io stessa non so se ne leggerei uno così lungo, quindi tenderei a chiudere qui non prima di dirvi che in realtà sto riflettendo su questo argomento, perché leggendo I 49 racconti di Hemingway mi sono imbattuta in 49 ritratti di uomini (le donne non sono quasi mai presenti o hanno un ruolo secondario) e proprio loro rappresentano forse una delle parti più interessanti e per cui vale la pena leggerlo.

Si ora ho finito per davvero, spero che le mie colleghe acide e pazze non finiscano mai da queste parti, ma nel caso succedesse e mi facessero sparire, sono contenta di aver pubblicato questi diciotto articoli  sul mio blog, rendendo la rete non un posto non migliore, ma sicuramente più affollato di parole.

 

Giuliacci aiutaci tu

Nuove frontiere della meteorologia

E come ogni anno arriva la sindrome dei fenomeni meteo, con gli annessi nomi che fanno da corollario a questo delirio. Scipione, Giuda, Caronte, el Ninõ, la Ninã, la Pinta e la Santa Maria. Ignoro se questo fenomeno sia tipicamente italiano, se siamo gli unici che ci dobbiamo sciroppare questo conio a cui ha dato inizio ilmeteo.it, o se gli altri stati europei hanno la grazia di avere previsioni meteo più scientifiche.  Fatto sta che siamo in Italia, e la scientificità e la sobrietà nell’affrontare le situazioni sembrano essere sempre meno nel nostro DNA. Bisogna  urlare per fare sentire la propria voce in questo Paese, in cui se giaci in un letto pieno di formiche in un ospedale, puoi pensare che qualcuno intervenga solo se finisci sulle pagine di qualche quotidiano. O se per creare un po’ di audience devi scomodare dalla tomba Muzio Scevola e appiopparci il nome dell’uragano di turno.

Forse hanno iniziato gli americani con questa cosa, non so la questione merita un approfondimento perchè mi sta logorando. Ogni estate infatti è sempre peggio e sempre più all’insegna dell’allarmismo, come se urlare questa cosa e ammorbarci la vita con l’afa potesse aiutarci a viverla meglio o a cambiare le cose. Siamo già condannati a vite in cui lavoriamo per la maggior parte del tempo a tutte le temperature caro ilmeteo.it, non ci aiuterai a lenire il nostro spleen esistenziale prevedendo caldo orribilis e tremendus fino a settembre. Ci farai solo venire voglia di tirare testate contro il muro e piangere in lingue a noi sconosciute.

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Devo dire che il caldo non è mai stato un problema per me, fino a quando non mi sono trasferita a Milano e ho iniziato a vivere l’estate con crescente apprensione. Perché effettivamente la sensazione di calore costante e l’afa opprimente e la calura che non ti lascia neanche di notte, sono infernali. Ogni anno penso che non sopravvivrò e morirò e ogni anno invece sopravvivo. Questa è una grande lezione di vita, perché sono giunta a conclusione che le cose che pensiamo ci uccideranno non lo faranno. Lavori che odiamo, persone che non sopportiamo, i dolori, la cafoneria della gente, il caldo estivo e Berlusconi che abbraccia gli agnelli a Pasqua. State tranquilli cari amici, queste cose non ci uccideranno, ci logoreranno forse, ma ci lasceranno in vita, solo con i cabasisi un po’ più gonfi e bassi.  Per chi ce li ha. Possiamo solo sperare che prima o poi torni il gusto per le cose di un tempo, il meteo alla vecchia maniera con Giuliacci in televisione, la bacchetta e la cartina dell’Italia.

Nel frattempo auguro a tutti di avere l’aria condizionata in casa e non vivere a Milano. Se si verifica almeno una delle due condizioni, cari amici, siete salvi, al contrario, sappiate che avete tutta la mia solidarietà. Bevete molto sempre e comunque! Meglio non alcolici, ma se volete farvi un cicchetto per la disperazione sappiate che non vi biasimo.

 

La virtù delle cariatidi

Anche detta la legge di Murphy

Il week-end appena trascorso è stato per me assai formativo. Non solo perché c’è stato il ponte lungo, (somma gioia per ogni lavoratore) ma perché ho effettuato attività inusuali che mi hanno condotta sulla via della conoscenza.  Forse non una conoscenza aulica e di livello, ma sicuramente utile e appagante.

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Ho scoperto, aprendomi così ai vostri giudizi sulla mia sconfinata ignoranza, che la cariatide, non è in realtà solo una donna vecchia ed eccentrica come io pensavo, una tipo zia Yetta per intenderci, o come la mia dirimpettaia, che mi dispiace molto non potervi mostrare, ma una figura iconica per la scultura greca: un busto femminile inserito in una colonna che regge un pilastro o una mensola.

Vi allego una foto, perché la mia descrizione apre ad ambiguità immaginative.

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Ecco queste sono un gruppo di cariatidi. Sono un po’ compiaciuta, lo ammetto, perché ogni qualvolta mi confronto con cose che non so (molte), riprovo un po’ quella magia antica nello scoprire che nel mondo c’è ancora spazio per l’esplorazione. La parte più appagante in realtà non è stato scoprirlo, ma il come questo è accaduto. Ero a Genova, alla mostra di Modigliani, che consiglio a tutti di vedere perché molto bella, e mentre l’audioguida dilettava le mie orecchie con la sua voce metallica, scopro che Modigliani adorava dipingere cariatidi. Lì ho capito subito che non potevano essere delle vecchiacce orribili senza denti, (il buon Amedeo era uno che apprezzava la Femmina), e quindi grazie a Wikipedia ho colmato questa lacuna recuperando il vantaggio che l’audioguida aveva su di me.

La domanda, cari amici, vi sporgerà spontanea, perché delle donne a reggere delle colonne? Non era meglio metterci dei maschioni che forse veicolavano più virilmente il concetto di forza? Ma va i greci, o come li chiamava una mia amica, i grechi, erano più sottili.

Cariatide dal greco significa “Donna di Carie” (città del Peloponneso), una città greca (tapina) che aveva deciso di schierarsi con i Persiani.  Quando Atene vinse sui Persiani e quindi su Carie, ai nostri amici Ateniesi parve giusto non farsi sfuggire la possibilità di infierire. Quindi distrussero la città, uccisero gli uomini e resero schiave le loro donne, scolpendone la disfatta nelle colonne di Atene ad imperitura memoria. Carini, no?

Ebbra di passione per questa scoperta e preda di saudade per la storia antica, ho scoperto che esiste anche una versione maschile delle cariatidi, i Telamoni, più machi e fichi delle loro omonime, che restavano comunque la scelta preferita degli Ateniesi. Infatti i Telamoni, mi dispiace per gli uomini, non hanno una storia così interessante alle spalle.

Dopo tutta questa lezione di storia, che dovete leggere necessariamente con la musica di Quark di sottofondo e la foto di Piero Angela sul desktop, giungo alla morale vera:  non so se esistesse la leggi di Murphy ai tempi, ma le Cariatidi ne sono state inconsapevoli antesignane: quando pensi che non potrà andar peggio di così, lo farà. E non solo lo farà, ma verrà scolpito nella pietra per secoli e secoli, e nonostante questo quando si parlerà di te nessuno ricorderà il bel busto delle colonne del tempio Eretteo, ma questo.

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C’è forse qualcosa di peggio?

Ernest Hemingway vs Bear Grylls

Quando tutto è già stato detto

Mentre tutti i più grandi del mondo si sono riuniti a Taormina a discutere su come incasinare ancora di più le cose in questo mondo alla deriva, io mi sono rifugiata nella lettura di Ernest Hemingway.

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Una scelta semplice, avulsa dalle mode o dagli snobismi dilaganti, ma solida, intensa e priva di fronzoli come solo Ernest sa essere. In realtà questa selezione non stata è casuale: all’attivo non avevo moltissimi libri suoi letti e questo buco nel mio status di lettrice pesava, non tanto alla mia vita, quanto ai momenti condivisi con i miei colleghi alla scuola di scrittura creativa che frequento.

Premessa, Milano fa rima con competizione. Qualsiasi cosa si faccia a Milano non è mai priva di sottesi legati allo status. Anche nel tempo libero. Quindi se vai al corso di yoga ci sarà la corsa all’outfit migliore e se ti viene la malaugurata idea di frequentare un corso di scrittura creativa (come me), ti imbatterai nella competizione peggiore: quella di persone che condividono con te una passione. Questo all’inizio sembra bellissimo, ma è garantito che poco dopo si trasformerà in un terribile Hunger Games letterario, dove se non hai letto gli inediti di Carver,  i saggi mai usciti di Wallace, e non hai sottolineato con la matita tutto Proust, rientri automaticamente nel gruppo dei partecipanti di serie B: ovvero coloro che non solo non potranno mai diventare degli scrittori, ma non dovrebbero neanche avere l’ardire di pensarlo.

Questa mia apprensione legata alle letture, prima pressoché inesistente ha iniziato a crescere esponenzialmente alla frequentazione del corso. Non solo mi venivano ansie e palpitazioni ogni qual volta dovevo leggere un mio scritto, ma anche nei momenti di chiacchericcio informale, in cui tutti pur provenendo dalle professioni più disparate e dai contesti più variegati, diventavano improvvisamente dei Gillo Dorfles con all’attivo ore di lettura degne di un Guiness dei primati. Io con il mio libro sottobraccio in metro e con le mie rilassate letture nel tempo libero, mi sono sentita una dilettante.

Quindi quando una sera il nostro insegnante (chiamato Il Maestro dai più affiatati fan del corso) ci ha posto questa domanda: “Se voi poteste scegliere come scrivere, scegliereste Hemingway o Fitzgerald?”, non ho avuto dubbi e ho scelto subito Hemingway, affidandomi alla beatitudine dei suoi periodi paratattici e alla sacra essenzialità della sua prosa.

In realtà poi ripensandoci mi sono resa conto che era stato un rispondere approssimativo, perché io di Hemingway avevo solo letto Il vecchio e il mare e Addio alle Armi. Ho pensato fosse necessario recuperare questa lacuna e mi sono indirizzata su I quarantanove racconti.

Il racconto come genere mi piace moltissimo, lo trovo completo nella sua perfezione. So che è molto meno in auge del romanzo e che non a tutti piace la narrazione breve, ma io trovo al contrario sia la forma più adatta a descrivere la realtà. Non so voi, ma la mia vita è piuttosto frammentata, costruita da brevi azioni che portano a brevi avventure che spesso si chiudono con improbabili finali. Uno spazio in cui tragedia e commedia e mezzi pubblici e relazioni problematiche e famiglie disfunzionali compaiono recitando il loro ruolo.

La prosa di Hemingway mi sembra più vicino a tutto questo e oltretutto narrando di guerre, corride, Africa, battute di pesca e caccia, mi regala anche attimi preziosi di vita vera che il mio destino da donna paurosa e tendenzialmente ansiosa non esperirà mai. A patto che non mi scoli una boccetta di Lexotan, ci fumi qualche stupefacente sopra o mi facciano una lobotomia.

Leggete i racconti di Hemingway, cari amici, nella peggiore delle ipotesi imparerete le regole della corrida, come si uccide un leone in Africa o come si effettua un parto cesareo in una tenda indiana in mezzo alle foreste della Virginia. A dimostrazione che Bear Grylls non si è inventato niente.

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Le otto montagne

Habemus Cognetti

Con il mio solito ritardo essenziale, sono approdata alla lettura di “Le otto montagne” di Paolo Cognetti. Confesso che non lo conoscevo come autore e che mi sono convinta ad acquistare il suo ultimo libro prostrata dalle ripetute sollecitazioni a cui il mondo mi ha sottoposta. Tipo che in ogni libreria in cui entravo il libro era lì nello scaffale dei best seller/novità/figata pazzesca e nonostante abbia  tentato più volte di ignorarlo, la forza di Cognetti è stata incontrastabile. Alla fine ho perso la mia battaglia contro le edizioni in copertina rigida di Einaudi e ho deciso di investire i miei 18,50€ in quest’opera, a cui però ho guardato con sospetto fin dall’inizio. Perché vi chiederete voi? Perché io con la montagna e soprattutto con la Val d’Aosta, regione in cui gran parte del libro è ambientato, ho un rapporto speciale. I miei nonni paterni vengono infatti da lì: mia nonna era una deliziosa francesina e mio nonno un valdostano guascone che le rubò il cuore. Si sono amati,  hanno avuto nove figli, e vissuto parte della loro vita in un piccolo paesino della Val d’Aosta. Nonostante io sia nata e vissuta nella ridente Pianura Padana, ho collezionato dei ricordi indelebili delle mie estati in montagna in mezzo ai boschi e agli alpeggi, circondata da questa grande famiglia italo francese, con cui facevo escursioni in cima alle montagne, portavo le mucche al pascolo e mi divertivo a smettere di essere l’educata bambina di città.

Questo per dire che ero pronta al peggio, pronta a leggere qualcosa di bello che però non avrebbe saputo restituirmi quelle atmosfere che avevo vissuto, pronta anche a leggere qualcosa di brutto, pronta a non essere pronta per i racconti sulla montagna. E invece Cognetti, nonostante la sua giovine età anagrafica, ci sa fare. Anzitutto scrive benissimo, la sua prosa è fluente e intensa. Ha una scrittura asciutta, priva di fronzoli, ma non banale. Non ultimo è in grado di essere commuovente senza cadere nel lirismo, ci sono stati dei passaggi in cui mi sono venuti i brividi, e non perché in metro c’erano -26gradi e avevo il bocchettone dell’aria condizionata sparato sulla cervicale.

La storia, che vi riassumo senza fare brutti spoiler, è semplice. Pietro è un ragazzino che vive a Milano, i suoi genitori sono veneti e hanno lasciato le montagne per raggiungere la città, in cerca di lavoro e di un nuovo inizio. Durante le vacanze estive affittano una piccola casa a Grana, un immaginario paese ai piedi del Monte Rosa, dove Pietro conosce Bruno, un ragazzino di montagna suo coetaneo. Da lì si snoda tutta la trama che seguirà Pietro nella sua crescita, fino all’età adulta.

Un plot semplice ma ricco di delicatezza. Un libro che consiglio assolutamente. Anzitutto sono duecento pagine, quindi non è niente di inaffrontabile, in più ogni tanto del sacrosanto campanilismo non guasta, Cognetti è giovane e talentuoso e si merita grandi opportunità. Tutt’al più che essendo in Italia, dalle vendite del libro guadagnerà quattro ceci e tre banane.  Inoltre ha un blog su cui scrive e che vi linko qui, se vi venisse la voglia di leggerlo: http://paolocognetti.blogspot.it/

Alle donne più interessate, inserisco anche questa sua sognante fotografia, che non sia mai, come diceva mia nonna, magari è un buon partito.

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