Insonnia

Virtù teologali del non dormire

A settembre, lo diceva anche D’Annunzio, è tempo di migrare. Poco importa che siano migrazioni fisiche, psicologiche, emotive, situazionali o meteorologiche, settembre è il classico mese di transito che ti conduce dalla fine dell’estate all’autunno (questo almeno prima che si manifestasse il global warming), che ti traghetta dall’ozio delle vacanze estive al rientro al lavoro, che ti pone delle domande, che ti scuote l’anima chiedendo risposte agli interrogativi che uno evita di porsi da aprile in poi, che tanto si sa, si aspettano le vacanze estive.

Questo almeno per la maggior parte delle persone, che vede in settembre, e non in dicembre il reale inizio dell’anno. Io che sono sempre in ritardo su tutto, e che faccio del procrastinare uno stile di vita, attribuisco questo potere rigenerativo al mese di ottobre, un po’ perché mi è più simpatico, un po’ perché ci compio gli anni e quindi fare il punto della situazione è dovere e non velleità.
In questi criptici cambi di stagione e di vita il mio pensiero si fa prepotente e rutilante a causa di una delle affezioni più note e più stressanti di sempre, che pare affliggesse anche le notti del buon Gaio Augusto Cesare: la cara e odiata insonnia.
Io sono un insonne intermittente, dormo bene per mesi (soprattutto quelli invernali), poi dormo malissimo per altri mesi, poi ricomincio a dormire bene, poi male, poi bene, e avanti così in un perpetuo ciclo del disagio che tento ogni volta di gestire nel modo migliore possibile, ma spesso non all’altezza della situazione.
Celine diceva: “Se avessi sempre dormito bene non avrei mai scritto un rigo…” e sono anche io piuttosto convinta che lo stream of consciousness notturno sia prolifico per la scrittura e la creatività e la riflessione profonda, ma trovo allo stesso tempo che sia molto inadatto a chi conduce una vita diurna lavorativa, tipo me.
Le mie notti ultimamente assumono quindi dei toni dai contorni mistici, in cui l’obiettivo finale non è l’eterna benedizione ma qualche ora di sonno ristoratore.

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FEDE
L’appropinquarsi al coricarsi è ebbro della certezza che dormirò. Mi convinco che convincermi che riposerò bene tenga a bada l’ansia, sciolga i nervi, mi proietti già in una dimensione di relax.
Metto in atto le routine che qualsiasi sito web anti-insonnia propone come panacee: bagni caldi, tisane, luci soffuse, letture lente. Faccio bene i compitini e almeno un’ora di prima di dormire evito anche di usare iphone, ipad, televisori, computer, qualsiasi supporto che emani una luce che non sia quella delle lampade analogiche. Per un certo periodo mi sono anche corretta le tisane con il Braulio, come faceva mia nonna quando ero piccola per farmi rilassarmi e dormire, mandando in bestia mia madre che prevedeva per me un sicuro futuro da alcolista.
Medito, ascolto playlist rilassanti e rumori bianchi, metto i tappi nelle orecchie, le mascherine anti-luce e mi stendo, sicura che il sonno arriverà. E il sonno arriva di solito, la mia fede incrollabile soddisfatta.

SPERANZA
E dormo. Per qualche ora, non di più, dopodiché mi sveglio. Mi sveglio e allora inizio a sperare che sia solo una veglia passeggera, un rapido risveglio e che riuscirò a riaddormentarmi presto. Per la maggior parte delle volte questo non accade e quindi inizio a pensare. A tutto, qualsiasi cosa possa essere oggetto di pensiero: cosa mangerò a colazione, cosa ci faccio al mondo, che senso ha la vita, le lavatrici da fare, cosa dovrò fare l’indomani in ufficio, perchè non sono felice, perchè penso che dovrei essere felice e così via. Di solito raggiungo il climax dell’angoscia dopo un’oretta di sveglia, così speranzosa mi alzo e decido di spostarmi in soggiorno, dove da tempo staziona il mio amico notturno, lui, che condivide, insieme al fedele cane, le mie notti insonni: Baruch Spinoza.
Vorrei fare l’intellettuale chic e dirvi che ho comprato l’Etica di Spinoza per spingermi sempre più a fondo nel pensiero di uno dei filosofi per me più interessanti, (motivazioni che di fatto mi hanno spinta all’acquisto di questo tomo imponente), ma vi confesserò la verità: è un libro così noioso (e complesso e straordinario e profondo, blablabla) che lo leggo la notte per riaddormentarmi. Funziona abbastanza, ma non sempre. Quando funziona di solito mi riaddormento e riposo fino al mattino.

CARITA’
Quando non funziona, subentra l’ultima fase, quella della disperazione nera dove imploro tutti gli dei a me conosciuti di farmi riaddormentare. Imploro la carità, la carità del sonno, dell’oblio, di un pensiero superficiale, di qualsiasi cosa che possa stendere sulla mia mente un velo di nulla. Gli dei a cui mi appello di solito sono equamente insensibili, e intanto si sono fatte le quattro, pertanto le opzioni che si profilano di solito sono due: benzodiazepine (funzionano come Dio, ma sono più a buon mercato), o il risveglio completo. Cucino, stiro, lavo, guardo la televisione, scrivo e arrivo alla mattina, pronta a una nuova ed entusiasmante giornata di lavoro.

Non so se faccia bene o male dormire così poco (penso non bene comunque, ma la prendo sportivamente) fatto sta che dopo un mese d’insonnia nera, ho deciso di prendermi un’altra laurea e mi sono iscritta all’Università.
Ho pensato che tanto ho già letto metà dell’etica di Spinoza, quindi insomma, se va tutto male si frequenta l’Università di Chiara, quella notturna, insieme ai turnisti, alle prostitute, agli addetti ai supermercati aperti tutta la notte, a quelli che puliscono le strade di Milano, alle guardie mediche, ai medici di turno al Pronto Soccorso, alle madri e ai padri dei neonati, alle coppie che fanno l’amore, ai camionisti, a tutte le categorie di persone che lavorano di notte che non ho citato e agli insonni, miei cari amici, che la mancanza di sonno vi porti bene, e se non lo facesse, compratevi l’Etica di Spinoza e fatevi prescrivere l’Halcion, uno dei due di sicuro funziona!

Fin che morte non ci separi

Gente che viene, gente che va

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Mentre il mondo impazziva per ricordare il decennale della morte di David Foster Wallace, in Italia è venuto a mancare Guido Ceronetti, un grandissimo scrittore, intellettuale, poeta, filosofo e traduttore. La sua morte è passata quasi inosservata: c’era un breve articolo sul Corriere e su Repubblica, qualche parola accorata di chi l’aveva conosciuto e poco altro.

All’inizio me ne sono molto dispiaciuta. Mi sono proprio arrabbiata direi (non me ne vogliano i fans di Wallace, che per altro anche io amo). Ho pensato che siamo sempre vittime del classico difetto di pensiero italota, che suppone all’estero siano sempre più bravi di noi nel fare le cose (non mi riferisco alla situazione socio-politica, che come sappiamo, è tragica a tratti). Cinema, letteratura, arti, etc., stiamo sempre pronti al plauso per tutto quello che è oltre confine, ma poco capaci di valorizzare quello che sta dentro al nostro di confine.

Guido Ceronetti era una vera mosca bianca, ha scritto, tradotto e filosofeggiato e inveito contro il decadimento culturale e di costumi che osservava attorno a sé, restando sempre ai margini con la discrezione e la mitezza dell’uomo colto, e ha lasciato questa terra così, come ha vissuto. Traduceva dall’ebraico, dal greco, ed era esperto in lingue classiche. Non è un autore facile da leggere, anzi, ma i suoi scritti sono pieni di verità, e la verità non è mail facile da accettare, soprattutto se punta il dito su quello che non vorremmo vedere.

Il suo libro più famoso, e per me quello più semplice a cui approcciarsi (per chi magari volesse cimentarsi) è Un viaggio in Italia, edito da Einaudi, ed è il racconto di un lungo viaggio che Ceronetti fece a piedi tra il 1981 e il 1983 da nord a sud. Si tratta sostanzialmente di resoconto di viaggio, ma è molto di più di questo, gli aspetti che vengono colti sono fra i più eterogenei: non ci sono solo descrizioni di paesaggio, anzi, direi che sono quelle presenti in misura minore, ci sono visite nelle carceri, nei manicomi, nelle fabbriche, ci sono le scritte riportate dai muri, l’inciviltà, il degrado, ma anche la straordinaria, mistica ed estatica bellezza della natura.
E’ un libro molto complesso, e se vogliamo, profetico, visto che Ceronetti individua già nei primi anni ottanta l’inizio del declino sociale e culturale italiano, a cui noi, ormai credo, ci siamo anche abbastanza abituati.

Io ero affezionata al buon Guido, nel modo in cui ci si affeziona a chi non si conosce di persona, ma che si impara ad apprezzare attraverso le parole. Il suo linguaggio è riuscito a sfiorare delle corde della mia anima, anestetizzate da questo quotidiano un po’ duro e frenetico che vivo, come pochi autori hanno saputo fare.

Quindi forse poche persone l’hanno ricordato in questi giorni,  ma io volevo essere una fra queste.

Non so se questo faccia o meno la differenza per chi non è più tra noi, ma credo che si, in fondo lo faccia.

E voi, ditemi, quali sono gli autori della vostra anima?

Consigli per gli acquisti

Intrattenimenti acustici di qualità

Io non so voi ma quando sono in vacanza, soprattutto nei primi giorni, cado in una specie di limbo oscuro di nullafacenza. Riduco al minimo le attività che mi implichino un qualsivoglia sforzo e divento una specie di versione ingentilita di un’ameba: dormo, mangio, dormo, in un ciclo perpetuo che dura almeno quattro e cinque giorni.

Questa condizione mi consente un ripristino veloce dell’energia dispersa durante l’anno lavorativo e sebbene sia molto frustrante per chi accanto me desidererebbe maggiore azione, mi è assolutamente indispensabile. Sarei stata certamente una perfetta paziente del sanatorio Berghof, il sanatorio svizzero descritto nella Montagna Incantata di Thomas Mann. Credo mi sarei trovata a mio agio ad oziare in mezzo a nobili e borghesi tubercolotici, ascoltando Chopin, facendo lunghi bagni di sole e seducendo giovani militari in convalescenza.

L’ibernazione di tutte le mie facoltà, prevede anche la riduzione del tempo dedicato alla lettura in favore di attività ancora più passive, come l’ascolto di musica e di podcast, che trovo siano una delle invenzioni migliori di sempre. Mentre l’universo mondo si prodiga quindi, a consigliarvi libri di lettura estivi, io condividerò i miei podcast preferiti, per motivare chi come me non ha voglia di fare assolutamente nulla a non cedere alle barbarie dell’ozio ignorante.

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6 MINUTE ENGLISH BBC

Un podcast carinissimo per chi tenta di tenere esercitato l’inglese durante tutto l’anno. È un contributo estremamente breve, sei minuti circa, a cadenza settimanale, in cui i due presentatori Rob e Catherine discutono di una notizia di attualità. I temi sono molto leggeri e godibili, e l’argomento prescelto della settimana viene discusso sia dal punto di vista conversazionale che grammaticale e di pronuncia.

AD ALTA VOCE – RAI RADIO 3

Un podcast estratto dal famoso programma radiofonico di Radio Tre, in cui grandi attori leggono classici della letteratura. Tendenzialmente io tendo ad ascoltare libri che ho già letto, perché non sono mai veramente concentrata, per cui se ascolto un libro che non ho mai letto me ne perdo sicuramente alcune parti e questo mi manda ai pazzi.

Quando ascolto però un’opera che ho già affrontato, mi si apre un mondo, riesco a gustare la trama e i dialoghi in un modo completamente diverso. Ora ad esempio sto ascoltando Moby Dick di Melville e l’esperienza mi sta dando grandissima soddisfazione.

IL CINEMA ALLA RADIO – RAI RADIO 3

Questo è uno dei miei podcast preferiti. Viene scelto un film, se ne contestualizza la trama, i protagonisti, il regista e tutto il resto e invece di guardarlo lo si ascolta. Può sembrare una cosa balzana e bizzarra, o forse limitante, visto che la dimensione visuale di un film è imprescindibile, però vi assicuro che è un’esperienza che merita. Oltretutto non si ascolta tutto il film, vengono scelti alcuni spezzoni che vengono poi inframmezzati da una spiegazione sul contesto della scena, quindi è godibilissimo. Inoltre, la selezione è davvero di qualità: ci sono film vecchi, cartoni animati, comici, di tutto.

LETTURE – DI RADIO 24

Podcast in cui, premesso che non possiamo leggere tutto quello che viene offerto dall’offerta giornalistica, culturale e mediatica, vengono selezionati dei contributi riguardanti diversi temi, che vengono letti e commentati. Possono essere discorsi di politici antichi o moderni, opere filosofiche, citazioni, encicliche e così via, ma anche temi dedicati all’attualità. Molto carino e interessante.

IN OUR TIME: PHYLOSOPHY – BBC RADIO

Last but not least, un podcast tratto da una trasmissione BBC dedicata alla filosofia. È sicuramente un po’ più impegnativo, bisogna avere una certa competenza nella lingua inglese ed essere interessati all’argomento, però è davvero ben strutturato. Ogni puntata è dedicata ad un filosofo o una scuola di filosofia e le spiegazioni sono davvero chiare e complete.

Ora non pensiate che il livello del mio intrattenimento sia sempre così alto, perché vi garantisco che non lo è, anzi per la maggior parte del tempo scarico la tensione mentale ascoltando indegne playlist di Spotify e guardando serie tv, ma tento di alternare un po’ l’offerta, anche solo per introdurre più bellezza possibile al mio quotidiano.

Se qualcuno ha dei podcast da suggerire, è il benvenuto. Lo omaggerò di tutto il mio entusiasmo.

Sliding doors

O le capocciate di testa contro il destino

La scorsa settimana ero a pranzo con un collega e mentre ci deliziavamo con insolite amenità culinarie koreane si stava discutendo sull’interessante concetto dei sospesi, ovvero di quelle situazioni che capitano sovente nella vita in cui c’è un potenziale di sviluppo che poi non si realizza creando la classica logica delle slinding doors.

Lui infatti si ricordava di una biondina conosciuta alle elementari di cui si era segretamente, o forse non segretamente, innamorato e che era rimasta sempre nei suoi pensieri come il suo grande amore di bambino. Ci pensava a volte, era persino finito a cercarla su qualche social, e aveva scoperto che era sempre bionda, piuttosto carina, viveva all’estero ed era sposata con un pezzo grosso di una multinazionale.

Il fatto di trovarsi ora felicemente sposato con la donna dei suoi sogni, di avere due splendidi bambini, e di condurre una vita faticosa ma piena, non gli impediva ogni tanto di ripercorrere il suo passato e pensare alla biondina e alle diverse slinding doors che la vita gli aveva disseminato sul cammino.

Interrogata a mia volta sui miei sospesi lì per lì ho negato di averne, un po’ perché volevo recitare la parte della donna sicura della direzione che sta intraprendendo (niente di più lontano da quella che sono, ovvero una perenne indecisa), un po’ perché ci ho messo un attimo a discernere fra le sliding doors finte (ovvero quelle situazioni che pensiamo avrebbero cambiato il corso delle cose, ma che di fatto non avrebbero cambiato nulla) e quelle vere.

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Sono giunta quindi, dopo infinite riflessioni a determinare due principali slinding doors della mia vita, che di base sono anche le uniche due a cui ciclicamente ripenso in maniera ossessivo ricorsiva. La prima è avvenuta alla fine del mio percorso universitario, quando dopo essermi laureata con i massimi voti alla facoltà di Lettere, la docente di Letteratura Italiana Contemporanea mi aveva invitata ad iscrivermi ad un dottorato che avrebbe seguito lei, perché a detta sua ero molto dotata per la ricerca e le materie umanistiche, e non avrei dovuto buttare questo capitale umano di cui ero depositaria.

Purtroppo ero giovane e inesperta delle faccende della vita, con una situazione familiare e personale un po’ complicata alle spalle e l’unica cosa che desideravo era essere economicamente indipendente e percorrere la mia strada. Ho quindi deciso di rinunciare al dottorato ed iniziare a lavorare in un’azienda che mi ha introdotta nell’infelice baratro lavorativo in cui mi trovo attualmente.

Uno dei miei più grandi rimpianti è situato lì, nel preciso istante in cui ho deciso di voltare le spalle allo studio, attività che mi rendeva felice e piena e ricca per entrare in un’azienda, in cui ho passato il primo anno a servire caffè nelle riunioni, e dove per la prima volta ho sperimentato la famosa frase di Gore Vidal che dice “The unfed mind devours itself”.

Mi chiedo spesso cosa starei facendo ora se invece di prendere quella decisione ne avessi presa un’altra, se sarei più o meno felice, serena o realizzata. Tento di non pensarci e mi convinco che doveva andare così, cosa che in parte è vera, perché se non avessi intrapreso le orribili strade lavorative delle aziende grosse e cattive non avrei incontrato il Regista, che ha fatto capolino nella mia vita sette anni fa in una riunione pallosissima in ufficio, in cui tutti e due eravamo così annichiliti dagli argomenti di discussione che abbiamo passato tutto il tempo a fissarci con malizia.

L’altra slinding doors è di tipo sentimentale invece, e alzi la mano chi non ne ha almeno una.

Io, che sono un’ impulsiva che si è sempre lanciata a capofitto nelle situazioni più disparate (ho collezionato una serie di casi umani come ex fidanzati che potrei scriverci dei manuali), in realtà ne ho solo una, ma è tosta, così tosta che ogni volta che ci faccio i conti vorrei che arrivasse Maurizio Costanzo e facesse partire i consigli per gli acquisti, perché nonostante siano passati lustri su lustri da quando è accaduta, quando ci penso mi vengono ancora i coccoloni.

Anche la letteratura si è interessata a questo tema sconfinato e bellissimo. Esistono diversi libri illuminanti sull’argomento, il primo che mi viene in mente è Il conte di Montecristo di Alexander Dumas, lettura che consiglio caldamente, perché di storie epiche come quella di Edmond Dantès ne sono state scritte poche e perché offre un’interessante prospettiva sul tema delle slinding doors e sul tema della vendetta. Argomento direttamente correlato in questo caso, poiché è a causa di tre uomini malvagi ed invidiosi che Edmond non solo non può sposare la donna che ama, ma si ritrova anche in prigione accusato di alto tradimento. Quando poi riuscirà a fuggire e diventerà ricco grazie al ritrovamento di un tesoro, tornerà in Francia e passerà gli anni migliori della sua vita a vendicarsi dei tre nemici, accorgendosi poi solo alla fine del libro del tempo perso e del sangue amaro che si è fatto intraprendendo questa via.

Un altro libro non meno interessante è L’amore ai tempi del Colera di Garcia Marquez, che offre un’altra visione ancora più romantica sulla questione, perché Florentino Ariza, il protagonista, ama una donna, Fermina Daza, per tutta la sua vita, anche se lei è sposata con un altro.  Solo da anziani si ricongiungono e si amano (cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese d’attesa), come non avevano potuto fare da giovani (il padre di lei aveva voluto sposasse un uomo più ricco). In questo caso Florentino non si deprime per la sua slinding doors andata, anzi la coltiva nel tempo come un fiore raro, e poi alla fine viene premiato per la sua costanza.

Vogliamo parlare poi di Cime Tempestose di Emily Bronte? Il libro più bello di sempre sugli amori infelici e mai realizzati? Heathcliff e Catherine potrebbero fare una lectio magistralis sulle slinding doors, e per quanto mi riguarda Heathcliff è maestro cintura nera nell’ossessione per l’oggetto d’amore perduto.

E voi  cari lettori, quali sono le vostre slinding doors? Siete più della squadra Dantés o Ariza? Ignorate i vostri rimpianti o li coltivate  con la delicatezza che meritano? Vi disperate come Heathcliff per gli amori passati fino a farli diventare un’ossessione?

Io lavoro tutta la settimana come una cinese con il caldo cocente che mi uccide e dilettarmi con le vostre mancate direzioni di vita mi allieterebbe certamente.

Oppure consigliatemi qualche altro libro su questo interessante tema, sono desiderosa di esplorarne tutte le sfaccettature e continuare a farmi del male, come solo io so fare.

Gatti in testa

Visioni feline dell’estate corrente

Sono in arretrato con la scrittura più o meno come sono in arretrato con la vita. Questo è il classico momento dell’anno in cui l’unico pensiero persistente e ossessivo riguarda le ferie estive, ovvero il momento in potrò appoggiare la penna alla scrivania e salutare tutti chiudendo il capitolo lavoro e riaprendolo solo a settembre. A questo benedetto e agognato momento mancano ancora quattro settimane, alle quali arriverò probabilmente trascinandomi sui gomiti e con il viso nel fango come Soldato Jane, solo molto meno atletica e molto più sofferente.

Fortunatamente l’estate 2018 appare meno tragica dello scorso anno, e anche se appena la temperatura si alza di qualche grado io penso sempre di morire squagliata in una metro senza aria condizionata, quest’anno sono più ottimista e quasi, ma non vorrei esagerare, positiva.

La verità è che è stato un anno duro, da tutti i punti di vista: ho inaugurato l’anno nuovo con l’influenza del secolo, una crisi di coppia di quelle non da scherzare, una crisi di vita e prospettive lavorative se vogliamo ancora più profonda, attacchi d’ansia e di panico, più altri vari annessi e connessi che la vita ama metterti sul cammino come un Pollicino sadico con il gusto per l’horror.

In mezzo a questo tsunami di situazioni, la lezione che ho imparato e che continuo umile ad imparare ogni giorno è che non si può sfuggire dalla vita, dalle cose, dalle situazioni, dalle rese dei conti. Si può tentare di scansare, schivarle, posticiparle a quando ci sentiremo pronti ad affrontarle, ma tutto torna e prima o poi (sarebbe auspicabile prima che poi ma anche questo è relativo) sono da affrontare. L’unica alternativa è saper gestire il rimpianto e l’inedia, attività nel quale io sono una loser completa. Ho un terreno emotivo su cui attecchiscono con estrema facilità gramigne emotive che poi fatico ad estirpare, anche a causa di una molle pigrizia e di un denso lassismo che fanno parte del mio essere da quando sono al mondo.

E alla fine, quando si rimanda in aeternum, si sta nel mondo con un gatto in testa che disturba la visuale. Programmare, pensare, progettare, diventano difficili perché c’è un costante elemento perturbativo che fa inciampare, oscillare, cadere. Io alla mia ansia ho dato più o meno questa forma e queste caratteristiche feline, mi ci sono anche affezionata, perché posso dare la colpa a lei per tutto quello che non faccio e che sta sfuggendo di mano nella mia vita.

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Se siete anche voi degli addicted alle sindromi ansiogene e volete mettere alla prova i vostri muscoli  e la vostra resistenza psicologica agli orrori, vi suggerisco di pensare a intraprendere la lettura di 2666 di Roberto Bolaño. Io l’ho fatto in questi mesi, e nonostante mi sia venuto il tunnel carpale reggendo in metropolitana per più di 60 giorni un libro da almeno un chilo (900 pagine circa)  e abbia una perenne nevralgia alla spalla destra (dove lo mettevo in borsa), sono orgogliosa di poter dire di averlo letto.

È un’opera molto complessa, e io sono come sempre una delle persone meno adatte quando si tratta di parlare di libri (mi stanco subito e la faccio corta), ma in un contesto sociale così difficile come l’attuale, mi piace dare questi suggerimenti che aprono a scenari e sfide ancora più complicate, perché mi distraggono un po’ dalle ultime sortite del nostro comune amico Salvini.

Il testo, che Adelphi ha pensato bene di accorpare in un unico tomo, è suddiviso in 5 romanzi indipendenti. Questo vuol dire che potete leggerli nell’ordine che preferite, io l’ho letto nell’ordine canonico perché sono una che non ama improvvisare.

Parlarvi della trama o semplificarla, è cosa ardita, perché in realtà 2666 è un romanzo dentro al romanzo, in cui parallele ad un plot che lega le diverse parti dell’opera si intrecciano altre storie, personaggi secondari, trame alternative che hanno la stessa importanza e sviluppo di quella principale. Non vi capita mai leggendo un libro di pensare, ah ma adesso questo personaggio cosa farà? Ma la cugina della sorella di Pip è morta o è viva? E l’oste a cui D’Artagnan ha distrutto la locanda poi cosa avrà fatto?

Ecco 2666 è la risposta a tutte le trame secondarie mai raccontate nella storia della letteratura. Va da sé che non è una lettura da spiaggia, anzi è molto impegnativa, rutilante, caotica e in molti tratti dispersiva. Anche perché Bolaño è un maestro della citazione, conosce un’ampia fetta dello scibile umano che spazia dalla storia, arte, letteratura, musica e non manca di stupirti con delle perle rare che inserisce con grazia all’interno del suo narrare. Probabilmente come me, vi appassionerete di più alle trame secondarie che a quella principale.

Per rendere però questa micro discussione su 2666 una vera infamia, non vi racconterò brevemente cosa succede, perché prima non c’è un modo breve per raccontarlo, secondo perché per quello esistono le quarte di copertina o qualsiasi sito offre quasi sempre una breve sintesi dell’opera migliore  di quella potrei fare io.

Vi posso dire però che se amate il Messico, la seconda guerra mondiale, i misteri, il sesso, la letteratura, e avete lo stomaco forte per resistere a quasi 400 pagine di descrizioni dettagliate di femminicidi (donne mutilate, stuprate, impalate) e non ultimo amate Bolaño, trovatevi due mesi di tempo per leggerlo perché come tutte le cose difficili nella vita, poi la ricompensa è sempre all’altezza.

Per finire, volevo suggerirvi una giusta colonna sonora per la lettura di questo libro, visto che ho una persona a cui voglio molto bene, con un gusto raffinato per la musica (che io non ho) e che consulto sempre utilitaristicamente (ma anche e soprattutto perchè mi piace avere a che fare con lei) per farmi suggerire brani contro i problemi del quotidiano (dormire, rilassarsi, leggere, andare in palestra, sclerare) e che, salvo rare eccezioni (pezzi troppo selezionati per un orecchio ignorante come il mio) ci ha sempre azzeccato. Però visto che sto ancora deliberando sulla colonna sonora migliore magari ve la scrivo nel prossimo post.

Ringrazio al solito i miei cinque/sette lettori di sempre, che nonostante le mie sparute sortite sul blog mi danno fiducia e mi leggono. Potrebbe anche essere che ci capitino per sbaglio, ma non è che questo ai miei occhi abbia meno importanza.

Hegel chi avrebbe votato?

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Tesi Sto vivendo, penso come molti italiani, un momento di confusione e sbigottimento. Mi sento come una a cui stanno rubando l’auto sotto gli occhi e lo shock è così forte che non riesce a reagire. Sta ferma lì, guarda il ladro che le ruba la macchina e solo quando tutti e due si sono ormai definitivamente allontanati, realizza che non solo è stata derubata, ma che nella sua inerzia è diventata anche complice di quel furto.

Guardo il neo governo e non so cosa pensare.

All’inizio sono stata colta da un’ondata di rabbia, non tanto nei confronti del Di Maio o Salvini di turno, ma di tutti coloro che non sono riusciti a creare un’alternativa politica valida e hanno lasciato spazio ai facili populismi. Forse sarebbe successo comunque, un tempo c’erano i “terroni” per la Lega, adesso ci sono i migranti ed è un classico che invece di avere il coraggio di guardare il mostro che vive dentro di noi, si trovi qualcuno all’esterno su cui proiettare tutti i fantasmi di una società in declino come la nostra. Ho pensato che questo governo non mi rappresenta per nulla, che non mi ritrovo nelle parole che si spendono e negli obiettivi di cui si parla.

Forse i miei ragionamenti sono inquinati dalla posizione da privilegiata da cui parlo: vivo in una prospera città del Nord Italia con un tasso di disoccupazione basso, la sanità funziona, i servizi anche, non rischi di morire per un intervento di appendicite, e nonostante tutti i contro che si possono poi trovare, ho una qualità della vita probabilmente superiore a diversi miei coetanei (in termini lavorativi e di prospettive future).

Quindi a posteriori è facile sentirsi diversi da coloro che Salvini e Di Maio li hanno votati, pensare come sia stato e sia possibile che così tante persone si siano affidate a questi due partiti politici è un argomento caldo. La verità è che non c’era un’alternativa valida, e che decenni di mala politica e crisi delle istituzioni, hanno portato questo paese a una condizione di sfiducia totale nei confronti dello Stato. Lo si vede nelle derive no vax (lo Stato avvelena i miei figli), nelle aggressioni quotidiane a carico della Scuola (insegnanti picchiati o bullizzati dai genitori), nella giustizia fai da te, nella rabbia che si percepisce dalle parole degli italiani che si sentono presi in giro dalle istituzioni.

Direi che ci sono sacrosante ragioni dietro a tutto questo. Se abitassi a Roma e vedessi la città più bella del mondo languire nel degrado, mi arrabbierei. Pago le tasse, sono un onesto cittadino e i miei soldi finiscono in buchi neri che non solo non preservano l’ambiente in cui vivo, ma sollazzano orribili individui corrotti e mafiosi.

Antitesi Ok ci sta tutto, il disgusto, la stanchezza, l’apatia politica. Però non riesco a levarmi di torno la sensazione che in realtà i politici che abbiamo siano lo specchio (parziale), del popolo che siamo. Ce li meritiamo. L’italiano nello Stato non cerca un partner, ma un padre, che lo coccoli, lo curi, lo mantenga, ma non gli rompa neanche troppo le palle con le regole. Perché in quel caso, da buon papà, diventa un’ istituzione da combattere, eludere e ove possibile imbrogliare.

Ci pensavo giusto poco tempo fa, che anche in me, alberga un seme di quel lamentio denso e inerte di questo paese. Quella piccola voce che ci ripete che nulla potrà cambiare, che le cose vanno così, che tanto tutti i politici sono uguali.

In me si manifesta con una mancanza di assunzione di responsabilità degli aspetti da migliorare della mia vita. Mi lamento, coltivo i rimpianti dedicandogli energie e nostalgie, ma non faccio nulla per migliorare la situazione, convinta che ormai il mio destino sia questo.

Penso di essere un’onesta cittadina, perché pago le tasse, pago per i servizi di cui mi avvalgo, non sono mai salita su un mezzo pubblico senza pagare il biglietto, sono una lavoratrice operosa e mi reputo anche una persona educata.

Però non combatto i soprusi, se vedo qualcuno che si comporta in modo prepotente non dico nulla, lascio passare, se non mi fanno lo scontrino non mi oppongo, quando il mio dentista mi chiedeva se volessi la fattura o meno, spesso ho detto che non mi interessava, facesse lui. Mi interesso di politica ma tiepidamente, se posso delegare delego a chi reputo sia più preparato o interessato di me.

Piccoli peccati d’inerzia che sommati fanno lo spirito di una nazione. Quindi si, mi sento completamente diversa da un finto invalido che si dichiara cieco e poi va al mercato a fare la spesa, da quelli che si fanno timbrare il cartellino dai colleghi e poi vanno al mare, sono diversa dall’insegnante perennemente in malattia, dagli evasori fiscali, da quelli che si dichiarano nullatenenti e poi hanno una flotta di SUV nel box, da quelli che non fanno la raccolta differenziata o che parcheggiano nel parcheggio dei disabili.

Sintesi Mi ripeto che non sono così, ma la realtà è che sono anche così. E finché non impareremo a combattere questo virus, non ci saranno Salvini o di Maio che tengano, le cose probabilmente, non cambieranno mai.

Felicità

Albano e Romina forse lo sanno

Quando sono di cattivo umore mi avvalgo di alcuni rituali per alleviare la pesantezza che sovente si deposita sulla mia anima. Una pesantezza causata da diversi motivi, ma primariamente dal fatto che da un po’ di tempo a questa parte le mie giornate sembrano un trascorrere lento di ore inutili, dedicate ad attività lavorative per le quali non provo il benché minimo interesse.

Convincermi che a differenza di buona parte dei miei coetanei ho un lavoro a tempo indeterminato con un buono stipendio, godo di diversi benefits dati dal lavorare in una multinazionale strutturata e ho un capo abbastanza evoluto che non è difficile sopportare, non è sufficiente. Ciclicamente mi confronto con una angosciante mancanza di senso: occuparsi tutto il giorno di dati di fatturato e studiare tecniche efficaci per aumentare le vendite di prodotti inutili annichilisce e deprime il mio animo umanista.

Mi immagino la delusione di Karl Marx che mi osserva accigliato dall’oltretomba additandomi come responsabile e connivente di questo animale morente che è il capitalismo. Ho tradito gli ideali dei miei studi in Lettere e Filosofia per finire non so come a servire le bieche leggi dell’economia in cambio di un’indipendenza e sicurezza economica che senz’altro hanno un valore, ma di cui pago lo scotto a caro prezzo.

Karl Marx

Quando sto così, quando la vita sembra avere il peso specifico del piombo e mi sembra di aver sbagliato tutto, mi rifugio nei classici balsami che leniscono ogni angoscia: musica, caramelle delle Haribo, cioccolata e buone letture.

Tanto quanto non riesco a digerire i contributi di D’Avenia sul Corriere (non me ne vogliano coloro che lo amano, ma trovo alcuni suoi modi di porsi eccessivamente stucchevoli), tanto amo bazzicare sul blog di Paolo Cognetti, che da bravo uomo di montagna, senza troppi fronzoli o retoriche lascia dei contributi, rari come perle, che mi proiettano in una dimensione così distante dalla mia vita da diventare ispirazionali.

Vi invito a leggere il suo ultimo post su un vecchio montanaro valdostano. Non sono mai apologie della montagna, quanto è bella di lì, quanto si sta bene di là, ma un’analisi lucida di quello che stiamo perdendo, o abbiamo più tragicamente perso, in termini di tradizioni, rapporto e rispetto dell’ambiente e di quello che eravamo prima che il diffuso benessere convincesse tutti che bastava possedere una casa e una bella macchina per essere felici.

A questo proposito mi ha fatto riflettere la dichiarazione della donna più vecchia del mondo, una russa di 129 anni, che dice di non aver avuto mai un giorno felice in tutta la sua vita costellata da guerre, rivoluzioni, e dalla la morte del marito e dei figli. La donna ha detto che non ha fatto nulla per protrarre così a lungo questa vita di supplizi, se non mangiare poca carne, perché non le piace e bere tantissimo latte fermentato di cui è ghiotta. Quindi forse, nonostante lei neghi la presenza di felicità nella sua esistenza, ha condotto la sua vita limitando ciò che non le piaceva (mangiare carne) e abbuffandosi di quello che le piaceva (latte fermentato), seguendo in teoria il principio di piacere che ci spinge, (esclusi quelli del PD e i masochisti come me) verso le cose che ci fanno star bene.

Che poi non è forse questa la felicità?

E voi, cari sparuti lettori, cosa vi rende felici? Bevete latte fermentato, mangiate salsicce, ascoltate Albano e Romina, o leggete bei libri?

Siate sinceri che Carlo vi guarda.

Meglio tardi che mai

Benedetto Kent Haruf e chi lo legge

Come penso si possa evincere, ci ho messo un po’ a riprendermi dai risultati elettorali. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso da quello che in realtà si è palesato, ma chi mi conosce sa che sono un’inguaribile romantica e spero sempre che la società mi possa stupire con inattese e sporadiche manifestazioni di buon senso. Questo non è accaduto e mentre meditavo sulla prossima estinzione della civiltà italiana, sono arrivate le consultazioni al Quirinale, un brutto raffreddore, il Burian, gli sbalzi di temperatura e soprattutto un cambio di mansioni lavorative che mi è cascato sulla testa come il martello di Odino causandomi molto stress.

Insomma, la vita, o il caso, non sa gestire in maniera equa gli avvenimenti che dissemina nell’esistenza di un individuo: o somministra periodi di noia mortale o ti punisce con mesi in cui capita tutto allo stesso momento e tu ti senti come un ciottolo trasportato da una corrente nemica.

Ad ogni modo, nonostante il mio piccolo mondo antico  abbia subito scossoni, non ho smesso di dedicarmi all’attività per cui sento di essere più portata, ovvero la lettura. Essendo una pessima sportiva, una ancor peggior cantante, una cuoca pasticciona e una fidanzata non sempre di facile gestione trovo un sommo piacere e un certo riscatto nell’attività della lettura, dove posso dimostrarmi pigra ma impegnata senza essere redarguita per la mia attitudine all’inattività.

In questi mesi, mentre tutto attorno a me cambiava in modo confuso, ho intrapreso la lettura di un libro acquistato tempo fa che stazionava nella mia libreria e di cui rimandavo la lettura da tempo per diverse ragioni. La prima è che non amo fiondarmi sui cosiddetti fenomeni letterari, e quando tutti mi dicono di leggere un libro finisco per insospettirmi, anche se molto spesso il libro in questione è veramente valido.

Secondariamente preferisco approcciarmi ad un’opera quando tutto il chiacchiericcio che le si genera attorno è scemato e si può ragionarne con maggiore calma.

Sono approdata quindi a Kent Haruf in ritardo di circa due anni dall’uscita del primo libro della Trilogia della Pianura, “Benedizione” (in realtà sarebbe il terzo libro della trilogia, ma è stato il primo ad essere pubblicato in Italia rispetto agli altri), quando tutti l’avevano già letto e assimilato, quando tutto era già stato detto insomma.

E credo dunque che l’unica cosa interessante da dire su questo libro riguardi cosa succede quando si finisce di leggerlo.

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La trama in sé è piuttosto semplice e abbraccia circa un mese di tempo, da quando il protagonista Dad Lewis scopre di avere un cancro a uno stadio terminale che lo condurrà di lì a poco alla morte.

Dad vive a Holt, una piccola cittadina del Colorado: è estate, il caldo è torrido, tutto appare lento, vischioso, rarefatto dal calore. Le persone, gli eventi e persino la natura si muovono lungo traiettorie indolenti, appesantiti dalla calura e dalla sensazione di immobilità e morte che è tipica delle estati calde.

Niente muta, tutto è statico, solo dei brevi temporali estivi irrompono, portando pioggia e frescura. In questa specie di inferno dolce si snoda l’ultimo mese di vita di Dad, che accudito dalla moglie Mary, l’amore della sua vita, e da Lorraine, la figlia, si avvicina alla morte senza azioni eclatanti, aspettando solo di spegnersi, seduto sulla sua poltrona preferita. Attorno a lui una serie di personaggi e le loro storie si intrecciano in un mosaico perfetto, costruendo la vita di questa piccola cittadina americana.

L’esperienza di lettura è molto immersiva perchè la prosa riflette gli ambienti e le situazioni che vengono descritte: appare scarna ma intensa nella sua essenzialità, così come lo è Holt: grandi pianure, spazi ampi, montagne aspre, emozioni dilatate. Haruf manipola la scrittura alla perfezione, spogliandola di qualsiasi abbellimento e fronzolo, come se volesse arrivare al cuore della verità.

Perché cosa si può raccontare di un uomo che sta morendo?

Probabilmente molte cose, ma Haruf decide di soffermarsi su quelle apparentemente più insignificanti, dettagli che costruiscono la vita giorno per giorno, senza stridore o urla. C’è l’amore di una vita, non quello romantico, ma quello che fino all’ultimo resiste anche nelle situazioni più disperate, c’è la morte che non segue nessuna legge o stagione, ci sono i rimpianti, gli errori, i tradimenti.

Non voglio dirvi cosa troverete in quelle pagine, ma vi posso garantire che una volta finito di leggerlo Dad Lewis resterà con voi.

Ci penserete mentre state iniziando un nuovo libro, tornerete a pensarci dopo settimane, forse riaprirete il libro, nella pagina che avevate segnato. Farete fatica a rimetterlo in libreria e staccarvi da lui, vorrete leggere subito tutti gli altri libri di Kent Haruf e per una volta darete ragione a tutti quelli che gridavano al capolavoro.

Last but not least, aspiranti scrittori, se volete una bella lezione sui dialoghi è il libro che fa per voi perchè costituito per il 70% proprio da dialoghi. Può piacere e non piacere, (io non sono una grande amante del dialogo protratto, ma mi sono dovuta ricredere) ma è un grande esercizio di stile costruire un libro con questa originale struttura.

Se non vi ho ancora convinti, sappiate che ho letto da qualche parte che se leggete Kent Haruf vi danno il reddito di cittadinanza. Io non so, voi, ma mi informerei.

Gameti in crisi

Vota anche tu per l’estinzione

Mentre l’intenso dibattito mediatico attorno alle prossime elezioni impervia, io da donna frivola quale sono, mi occupo invece di notizie più superficiali che rappresentano a mio avviso, più della faccia liftata di Berlusconi, la tragedia dei tempi che corrono.

Pare sia  stata pubblicata la ricerca di un’ equipe di medici europei che ha evidenziato come la presenza di spermatozoi presenti all’interno del liquido seminale maschile negli ultimi 40 anni sia calata circa del 40%. Un uomo americano, europeo, o asiatico, rispetto ai suoi nonni, possiede quasi la metà di spermatozoi, che sembra non si siano semplicemente ridotti in termini di numero, ma anche di qualità.

In questi ambiti, la qualità si misura in standard decisamente virili: uno spermatozoo per essere davvero macho deve essere veloce e avere grande mobilità. Ecco sembra che insieme al numero, queste due caratteristiche siano sempre meno riscontrate: i nostri amici sono lenti e di qualità scadente. Sono un po’ depressi diciamo, e quindi molto spesso la già ardua impresa della fecondazione dell’ovulo diventa una missione pressochè impossibile.

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A questo si aggiunge il fatto che, soprattutto in Italia, l’età media della donna che si approccia alla maternità supera la trentina, dove avviene un calo fisiologico della fertilità e quindi la combo ovulo non freschissimo e spermino lento e poco motivato, determinano la cosiddetta infertilità di coppia, a cui la nostra cara ministra Lorenzin ha voluto dedicare il ben noto Fertily Day.  L’infertilità infatti provoca il temibile calo demografico: la popolazione nel tempo invecchia e la possibilità che il sistema pensionistico possa reggere a queste condizioni è improbabile.

Insomma, ci stiamo estinguendo.

Io ne sono anche abbastanza contenta vi dirò e non ne sono nemmeno stupita. Ho letto tempo fa, su una rivista americana, il parere di un ginecologo esperto in estinzioni animali. Si analizzava l’estinzione del panda, che è stata poi interrotta grazie alle tecniche di fecondazione assistita operate dall’uomo. Perché vi chiederete voi cari amici è stato necessario mettere in provetta pure i panda? Perchè gli orsetti furboni, ad un certo punto, hanno smesso completamente di accoppiarsi, e studiando il perché (anche abbastanza ovvio) di questo fenomeno, si è poi scoperto che era correlato al numero sempre più esiguo di risorse a loro disposizione.

Le foreste di Bambù sono state estirpate per far spazio all’agricoltura e i simpatici mammiferi mangioni, hanno ancestralmente smesso di accoppiarsi, perché di fronte alla mancanza di risorse per crescere la prole, la prole era meglio non esistesse. In fondo è un po’ quello che succede agli animali negli zoo, più lo spazio vitale di un animale si restringe e il suo poter essere animale nell’ambiente è impedito, più diminuisce la possibilità che avvengano accoppiamenti naturali o nascano cuccioli.

Ecco, sta tutto qui. Io credo che all’uomo stia succedendo una cosa simile. Se ci si guarda attorno la percezione è quella di mondo sempre più ostile, con risorse che nel tempo diventano sempre più limitate, e la cui corsa al procacciamento delle stesse ha condotto negli ultimi anni a un disastro nell’ecosistema che sappiamo tutti essere un processo difficilmente reversibile.

Di fatto siamo uomini, e nonostante ci si sia  convinti che indossando abiti firmati, guidando belle macchine e andando al ristorante, la nostra parte più mammifera non esista, ce lo ricordano i nostro ovuli e i nostri spermatozoi che basta, forse è il venuto il momento di farsi due domande. Perchè siamo una civiltà molto brava e puntuale nel dare risposte, ma lacunosa nel mettersi in discussione: siamo fortissimi sulle tecniche di fecondazione in vitro, ma meno bravi a creare le condizioni sociali perché queste non servano.

Non solo, sembra che si faccia sempre meno l’amore: in Svezia il governo ha realizzato un intermezzo pubblicitario in cui invitava le coppie di fronte alla televisione a spegnere l’infernale aggeggio e darsi da fare. Siamo troppo distratti dalla tecnologia e abituati all’intrattenimento passivo: anche fare l’amore diventa poco invogliante. Trovo che se siamo giunti a questo livello, l’alert sia massimo ed è  anche su queste questioni che la politica dovrebbe interrogarsi .

Non abbiamo bisogno di promesse su tasse che verranno magicamente estinte mentre dal cielo pioverà oro, o di garanzie sul benessere che gronderà a fiumi in un’orgia di lavoro e crescita del PIL: credo sia chiaro ormai che non basta quello per rendere dei cittadini felici.

Bisogna tutelare e garantire la qualità della vita, la qualità dell’ambiente in cui viviamo, avere la sicurezza che chi ci rappresenta ha davvero a cuore la sorte dei suoi cittadini e dei figli che verranno dopo di loro, e invece la politica è diventata uno show di individui narcisisti che recitano la loro piecé teatrale tentando di smantellare quello che è stato fatto nella legislazione precedente.

E così all’infinito, in un eterno ritorno da girone dantesco.

Io domenica andrò a votare, vorrei evitare tantissimo di trovarmi il Berlusca o Salvini come presidenti del consiglio, cosa che è molto probabile succeda. Domenica ho organizzato un rituale ellenico, in cui brucerò incenso e ballerò come una vestale tenendo fra le mani l’etica di Spinoza e chiedendo l’interdizione di YHWH (mi sembra un Dio più severo degli altri), nella speranza che elimini i corrotti, salvi i giusti e faccia resuscitare Ugo Tognazzi per qualche ora mentre in loop mi fa la scena della Supercazzola, solo per me.

E voi, cari amici,  come vi preparate per le elezioni?

Anziani di domani

Piccolo Compedio sul Fastidio

Se avrò mai l’ardire di invecchiare e diventare anziana, so già che sarò piena di rancore nei confronti di tutti. È un pensiero che ho realizzato pochi giorni fa, quando nel pieno di una crisi di misantropia in metropolitana, ho odiato profondamente tutti i presenti, esclusa la sottoscritta.  Mi infastidiscono troppe cose, situazioni, maleducazioni, per pensare che la situazione non peggiorerà in futuro e non mi trasformerò prima in una donna sulla cinquantina logorroica e dopo in un’anziana un po’ curva con una barba ispida e qualche baffo.

È noto infatti che in una donna dopo la menopausa i livelli di estrogeni calino in favore del testosterone e quindi non solo la biologia è stata bara con il gentil sesso nella sua età fertile, regalandogli cellulite, problemi mestruali, sbalzi umorali e compagnia bella, ma la trasforma poi negli anni in una versione ingentilita dello yeti, in un’età in cui bellezza e tonicità sono già sfioriti da tempo.

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Vorrei comunque stendere una lista degli atteggiamenti che più mi infastidiscono delle persone e del loro modo di vivere gli ambienti pubblici che subisco quotidianamente e che sono indice di un basso livello di educazione e senso civico, chiedendovi di contribuire a questo piccolo compendio del fastidio con quello che reputate manchi a questa preziosa lista.

  • Quelli che buttano i mozziconi di sigaretta a terra dopo aver fumato.
  • Quelli che con qualche scusa, o anche senza scusa, sorpassano le file.
  • Quelli che dal medico ti dicono, “Posso passare avanti, devo solo fare una ricetta” e poi stanno 45minuti ad occupare il medico raccontandogli dei loro calli e duroni plantari.
  • Quelli che in metro hanno lo zainetto, nonostante si stia stipati in 150 in 10mq, e non solo non se lo tolgono dalle spalle ma si girano scattando a destra e manca sfoderandoti sciabolate sulla faccia.
  • Quelli che sui mezzi pubblici a gran voce parlano di dettagli scabrosi della loro vita, visite mediche, risultati di esami, liti con i fidanzati, separazioni, ristrutturazioni di case e altro ancora.
  • Quelli che se ti urtano o pestano i piedi non ti chiedono scusa.
  • Quelli che non fanno sedere le donne incinte/anziane (o anziani) sui mezzi pubblici nonostante ce li abbiano di fronte.
  • Le coppie che si scambiano effusioni spinte, ovunque esse si trovino.
  • Quelli che non rallentano vicino alle strisce pedonali, anzi se vedono che provi ad attraversare accelerano per dissuaderti con la minaccia di un potenziale investimento.
  • Quelli che rinunciano alle regole base dell’igiene per deliziare chi incontrano con effluvi poco edificanti.
  • Quelli che hanno la Smart e la parcheggiano nei posti blu, dandoti l’illusione che il posto sia libero.
  • Quelli che al cinema o a teatro non spengono il telefono.
  • Quelli che ascoltano i messaggi vocali di fronte a tutti.
  • Quelli che non raccolgono le deiezioni dei loro cani.
  • Quelli che quando devi scendere alla tua fermata, non si spostano di un millimetro dalla loro posizione e devi fare la gimkana per scendere dal mezzo su cui ti trovi.
  • Quelli che buttano i rifiuti a terra, in spiaggia, nel mare, ovunque si trovino.
  • Quelli che all’autogrill o nei bagni pubblici lasciano situazioni imbarazzanti, non preoccupandosi che qualcuno dopo di loro, forse dovrà utilizzare quel bagno.

Mi rendo conto che il rancore nei confronti dei possessori di Smart non è politicamente corretto, ovviamente anche loro hanno il diritto di parcheggiare, ma comunque mi crea degli attriti interiori non da poco incontrare un parcheggio occupato da una Smart. La lista non prevede voci come: bambini rumorosi nei ristoranti, e altre piccole cose che mi infastidiscono ma che non rientrano, suppongo, all’interno di una questione di educazione o meno: a volte i figli, nonostante la buona educazione dei genitori, crescono un po’ come gli pare, e attraversano delle fasi difficili da piccoli Satana che spesso rientrano autonomamente.

Vi prego di deliziarmi con i vostri rancori personali, non fatemi sentire sola in questa situazione. Non so se questo momento di odio nei confronti del mondo è causata dalla lettura che mi sta dilettando in questo periodo. Per farmi più male di quanto il mondo già faccia, sto leggendo Finzioni di Borges. Non mi sono mai sentita all’altezza di leggere Borges, e lo sto affrontando solo ora, constatando che la percezione di non essere in grado di leggerlo è stata esatta e puntuale. Sento di avere per le mani del materiale incandescente, di una certa difficoltà e pieno di citazioni auliche e dottissime: questo non solo acutizza la percezione che io conosca ben poco dello scibile umano, ma mi fa sognare un mondo in cui tutto sia pennellato alla perfezione come nei suoi racconti.

Invece mi confronto quotidianamente con la mancanza di decoro del mondo, e anche mio, perché suvvia non sono esente dall’ aver volontariamente o meno agito in modo maleducato qualche volta. Io però come anticipato, pagherò questo dazio con la barba e i baffi da anziana, e scusatemi, non è poco.

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