Non ce né coviddì

Tempi duri e maledettamente scomodi

C’è voluta una pandemia mondiale, due chili in più sul girovita, mesi di reclusione dagli umori incerti e un accumulo di noia mortale per farmi decidere a scrivere di nuovo.

Qualcuno potrebbe pensare che evidentemente la scrittura per me non è una pratica attrattiva, ma in realtà è l’esatto contrario. Mi sento investita di un’enorme responsabilità quando scrivo e quindi se non si verificano tutte le condizioni imprescindibili perché ciò accada (quindi quasi mai) non lo faccio. Da lì a far passare un anno e mezzo dal mio ultimo post forse è un tantino esagerato, anche perché facilmente si possono creare delle aspettative sulla movimentata vita che posso aver condotto negli ultimi 365 giorni. Mi sarebbe infatti piaciuto moltissimo tornare e raccontare le mie esaltanti peripezie, ma in realtà potete immaginarmi esattamente al punto dell’anno scorso: con un lavoro che non amo nella bella Milano, e come tutti voi a fare i conti con questa pandemia, di cui, spero conveniate, avremmo tutti fatto volentieri a meno.

Io in primis, visto che oltre all’evidente dispendio di vita che questo virus ci ha imposto (non che si tratti di averci necessariamente sottratto di tempo di qualità) ho sviluppato avversione profonda per una nutrita folla di individui: detesto tutto e tutti, giornalisti, politici, governatori e virologi. Non sopporto i miei vicini che non fanno altro che litigare tutto il giorno, non sopporto me stessa e il mio essermi trasformata nella versione femminile di Oblomov, stesa per la maggior parte del tempo sul divano, vestita 24h al giorno con delle tute improbabili, chiamate anche comfy, (nell’ultimo disperato tentativo di dare loro una dignità), mentre mi abbuffo di cibo industriale che appaga la mia noia e si adagia morbido e voluttuoso sui miei fianchi morbidini.

Quindi per quanto io voglia cercare di trovare qualche aspetto positivo nella situazione in cui mi trovo, ci troviamo, non ci riesco. Alla fine di questa pandemia probabilmente i miei muscoli saranno completamente atrofizzati, e la soddisfazione per aver fatto germogliare i diciotto semi di avocado che ho messo a bagno non sarà sufficiente a restituirmi un sistema cardio muscolare efficiente.

Anche perché nonostante sia tentata, non riesco a credere alla retorica un po’ buonista che questo virus abbia messo alla luce le fragilità del sistema in cui viviamo e che quando tutto sarà finito, saremo delle persone diverse, e il mondo sarà un luogo migliore dove si innescheranno dei cambiamenti virtuosi. Io credo semplicemente che quando tutto questo sarà finito tornerà esattamente tutto come prima, con un sottofondo di incattivimento generale che questi anni così difficili avranno depositato nei nostri animi.

Magari mi sbaglio, ma dalla mia nuova Postazione della Saggezza (il divano), stesa come una matrona romana sul triclinio mentre spilucco la cena di McDonald, sento che non me la sento di essere troppo ottimista.

E’ un lusso che non mi posso permettere perché in caso di aspettative disattese mi troverei  come Britney Spear nella sua fase difficile: fuori controllo, con la testa rasata, un ombrello come amico e la voglia di spaccare tutto.

Insonnia

Virtù teologali del non dormire

A settembre, lo diceva anche D’Annunzio, è tempo di migrare. Poco importa che siano migrazioni fisiche, psicologiche, emotive, situazionali o meteorologiche, settembre è il classico mese di transito che ti conduce dalla fine dell’estate all’autunno (questo almeno prima che si manifestasse il global warming), che ti traghetta dall’ozio delle vacanze estive al rientro al lavoro, che ti pone delle domande, che ti scuote l’anima chiedendo risposte agli interrogativi che uno evita di porsi da aprile in poi, che tanto si sa, si aspettano le vacanze estive.

Questo almeno per la maggior parte delle persone, che vede in settembre, e non in dicembre il reale inizio dell’anno. Io che sono sempre in ritardo su tutto, e che faccio del procrastinare uno stile di vita, attribuisco questo potere rigenerativo al mese di ottobre, un po’ perché mi è più simpatico, un po’ perché ci compio gli anni e quindi fare il punto della situazione è dovere e non velleità.
In questi criptici cambi di stagione e di vita il mio pensiero si fa prepotente e rutilante a causa di una delle affezioni più note e più stressanti di sempre, che pare affliggesse anche le notti del buon Gaio Augusto Cesare: la cara e odiata insonnia.
Io sono un insonne intermittente, dormo bene per mesi (soprattutto quelli invernali), poi dormo malissimo per altri mesi, poi ricomincio a dormire bene, poi male, poi bene, e avanti così in un perpetuo ciclo del disagio che tento ogni volta di gestire nel modo migliore possibile, ma spesso non all’altezza della situazione.
Celine diceva: “Se avessi sempre dormito bene non avrei mai scritto un rigo…” e sono anche io piuttosto convinta che lo stream of consciousness notturno sia prolifico per la scrittura e la creatività e la riflessione profonda, ma trovo allo stesso tempo che sia molto inadatto a chi conduce una vita diurna lavorativa, tipo me.
Le mie notti ultimamente assumono quindi dei toni dai contorni mistici, in cui l’obiettivo finale non è l’eterna benedizione ma qualche ora di sonno ristoratore.

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FEDE
L’appropinquarsi al coricarsi è ebbro della certezza che dormirò. Mi convinco che convincermi che riposerò bene tenga a bada l’ansia, sciolga i nervi, mi proietti già in una dimensione di relax.
Metto in atto le routine che qualsiasi sito web anti-insonnia propone come panacee: bagni caldi, tisane, luci soffuse, letture lente. Faccio bene i compitini e almeno un’ora di prima di dormire evito anche di usare iphone, ipad, televisori, computer, qualsiasi supporto che emani una luce che non sia quella delle lampade analogiche. Per un certo periodo mi sono anche corretta le tisane con il Braulio, come faceva mia nonna quando ero piccola per farmi rilassarmi e dormire, mandando in bestia mia madre che prevedeva per me un sicuro futuro da alcolista.
Medito, ascolto playlist rilassanti e rumori bianchi, metto i tappi nelle orecchie, le mascherine anti-luce e mi stendo, sicura che il sonno arriverà. E il sonno arriva di solito, la mia fede incrollabile soddisfatta.

SPERANZA
E dormo. Per qualche ora, non di più, dopodiché mi sveglio. Mi sveglio e allora inizio a sperare che sia solo una veglia passeggera, un rapido risveglio e che riuscirò a riaddormentarmi presto. Per la maggior parte delle volte questo non accade e quindi inizio a pensare. A tutto, qualsiasi cosa possa essere oggetto di pensiero: cosa mangerò a colazione, cosa ci faccio al mondo, che senso ha la vita, le lavatrici da fare, cosa dovrò fare l’indomani in ufficio, perchè non sono felice, perchè penso che dovrei essere felice e così via. Di solito raggiungo il climax dell’angoscia dopo un’oretta di sveglia, così speranzosa mi alzo e decido di spostarmi in soggiorno, dove da tempo staziona il mio amico notturno, lui, che condivide, insieme al fedele cane, le mie notti insonni: Baruch Spinoza.
Vorrei fare l’intellettuale chic e dirvi che ho comprato l’Etica di Spinoza per spingermi sempre più a fondo nel pensiero di uno dei filosofi per me più interessanti, (motivazioni che di fatto mi hanno spinta all’acquisto di questo tomo imponente), ma vi confesserò la verità: è un libro così noioso (e complesso e straordinario e profondo, blablabla) che lo leggo la notte per riaddormentarmi. Funziona abbastanza, ma non sempre. Quando funziona di solito mi riaddormento e riposo fino al mattino.

CARITA’
Quando non funziona, subentra l’ultima fase, quella della disperazione nera dove imploro tutti gli dei a me conosciuti di farmi riaddormentare. Imploro la carità, la carità del sonno, dell’oblio, di un pensiero superficiale, di qualsiasi cosa che possa stendere sulla mia mente un velo di nulla. Gli dei a cui mi appello di solito sono equamente insensibili, e intanto si sono fatte le quattro, pertanto le opzioni che si profilano di solito sono due: benzodiazepine (funzionano come Dio, ma sono più a buon mercato), o il risveglio completo. Cucino, stiro, lavo, guardo la televisione, scrivo e arrivo alla mattina, pronta a una nuova ed entusiasmante giornata di lavoro.

Non so se faccia bene o male dormire così poco (penso non bene comunque, ma la prendo sportivamente) fatto sta che dopo un mese d’insonnia nera, ho deciso di prendermi un’altra laurea e mi sono iscritta all’Università.
Ho pensato che tanto ho già letto metà dell’etica di Spinoza, quindi insomma, se va tutto male si frequenta l’Università di Chiara, quella notturna, insieme ai turnisti, alle prostitute, agli addetti ai supermercati aperti tutta la notte, a quelli che puliscono le strade di Milano, alle guardie mediche, ai medici di turno al Pronto Soccorso, alle madri e ai padri dei neonati, alle coppie che fanno l’amore, ai camionisti, a tutte le categorie di persone che lavorano di notte che non ho citato e agli insonni, miei cari amici, che la mancanza di sonno vi porti bene, e se non lo facesse, compratevi l’Etica di Spinoza e fatevi prescrivere l’Halcion, uno dei due di sicuro funziona!

Felicità

Albano e Romina forse lo sanno

Quando sono di cattivo umore mi avvalgo di alcuni rituali per alleviare la pesantezza che sovente si deposita sulla mia anima. Una pesantezza causata da diversi motivi, ma primariamente dal fatto che da un po’ di tempo a questa parte le mie giornate sembrano un trascorrere lento di ore inutili, dedicate ad attività lavorative per le quali non provo il benché minimo interesse.

Convincermi che a differenza di buona parte dei miei coetanei ho un lavoro a tempo indeterminato con un buono stipendio, godo di diversi benefits dati dal lavorare in una multinazionale strutturata e ho un capo abbastanza evoluto che non è difficile sopportare, non è sufficiente. Ciclicamente mi confronto con una angosciante mancanza di senso: occuparsi tutto il giorno di dati di fatturato e studiare tecniche efficaci per aumentare le vendite di prodotti inutili annichilisce e deprime il mio animo umanista.

Mi immagino la delusione di Karl Marx che mi osserva accigliato dall’oltretomba additandomi come responsabile e connivente di questo animale morente che è il capitalismo. Ho tradito gli ideali dei miei studi in Lettere e Filosofia per finire non so come a servire le bieche leggi dell’economia in cambio di un’indipendenza e sicurezza economica che senz’altro hanno un valore, ma di cui pago lo scotto a caro prezzo.

Karl Marx

Quando sto così, quando la vita sembra avere il peso specifico del piombo e mi sembra di aver sbagliato tutto, mi rifugio nei classici balsami che leniscono ogni angoscia: musica, caramelle delle Haribo, cioccolata e buone letture.

Tanto quanto non riesco a digerire i contributi di D’Avenia sul Corriere (non me ne vogliano coloro che lo amano, ma trovo alcuni suoi modi di porsi eccessivamente stucchevoli), tanto amo bazzicare sul blog di Paolo Cognetti, che da bravo uomo di montagna, senza troppi fronzoli o retoriche lascia dei contributi, rari come perle, che mi proiettano in una dimensione così distante dalla mia vita da diventare ispirazionali.

Vi invito a leggere il suo ultimo post su un vecchio montanaro valdostano. Non sono mai apologie della montagna, quanto è bella di lì, quanto si sta bene di là, ma un’analisi lucida di quello che stiamo perdendo, o abbiamo più tragicamente perso, in termini di tradizioni, rapporto e rispetto dell’ambiente e di quello che eravamo prima che il diffuso benessere convincesse tutti che bastava possedere una casa e una bella macchina per essere felici.

A questo proposito mi ha fatto riflettere la dichiarazione della donna più vecchia del mondo, una russa di 129 anni, che dice di non aver avuto mai un giorno felice in tutta la sua vita costellata da guerre, rivoluzioni, e dalla la morte del marito e dei figli. La donna ha detto che non ha fatto nulla per protrarre così a lungo questa vita di supplizi, se non mangiare poca carne, perché non le piace e bere tantissimo latte fermentato di cui è ghiotta. Quindi forse, nonostante lei neghi la presenza di felicità nella sua esistenza, ha condotto la sua vita limitando ciò che non le piaceva (mangiare carne) e abbuffandosi di quello che le piaceva (latte fermentato), seguendo in teoria il principio di piacere che ci spinge, (esclusi quelli del PD e i masochisti come me) verso le cose che ci fanno star bene.

Che poi non è forse questa la felicità?

E voi, cari sparuti lettori, cosa vi rende felici? Bevete latte fermentato, mangiate salsicce, ascoltate Albano e Romina, o leggete bei libri?

Siate sinceri che Carlo vi guarda.

Anziani di domani

Piccolo Compedio sul Fastidio

Se avrò mai l’ardire di invecchiare e diventare anziana, so già che sarò piena di rancore nei confronti di tutti. È un pensiero che ho realizzato pochi giorni fa, quando nel pieno di una crisi di misantropia in metropolitana, ho odiato profondamente tutti i presenti, esclusa la sottoscritta.  Mi infastidiscono troppe cose, situazioni, maleducazioni, per pensare che la situazione non peggiorerà in futuro e non mi trasformerò prima in una donna sulla cinquantina logorroica e dopo in un’anziana un po’ curva con una barba ispida e qualche baffo.

È noto infatti che in una donna dopo la menopausa i livelli di estrogeni calino in favore del testosterone e quindi non solo la biologia è stata bara con il gentil sesso nella sua età fertile, regalandogli cellulite, problemi mestruali, sbalzi umorali e compagnia bella, ma la trasforma poi negli anni in una versione ingentilita dello yeti, in un’età in cui bellezza e tonicità sono già sfioriti da tempo.

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Vorrei comunque stendere una lista degli atteggiamenti che più mi infastidiscono delle persone e del loro modo di vivere gli ambienti pubblici che subisco quotidianamente e che sono indice di un basso livello di educazione e senso civico, chiedendovi di contribuire a questo piccolo compendio del fastidio con quello che reputate manchi a questa preziosa lista.

  • Quelli che buttano i mozziconi di sigaretta a terra dopo aver fumato.
  • Quelli che con qualche scusa, o anche senza scusa, sorpassano le file.
  • Quelli che dal medico ti dicono, “Posso passare avanti, devo solo fare una ricetta” e poi stanno 45minuti ad occupare il medico raccontandogli dei loro calli e duroni plantari.
  • Quelli che in metro hanno lo zainetto, nonostante si stia stipati in 150 in 10mq, e non solo non se lo tolgono dalle spalle ma si girano scattando a destra e manca sfoderandoti sciabolate sulla faccia.
  • Quelli che sui mezzi pubblici a gran voce parlano di dettagli scabrosi della loro vita, visite mediche, risultati di esami, liti con i fidanzati, separazioni, ristrutturazioni di case e altro ancora.
  • Quelli che se ti urtano o pestano i piedi non ti chiedono scusa.
  • Quelli che non fanno sedere le donne incinte/anziane (o anziani) sui mezzi pubblici nonostante ce li abbiano di fronte.
  • Le coppie che si scambiano effusioni spinte, ovunque esse si trovino.
  • Quelli che non rallentano vicino alle strisce pedonali, anzi se vedono che provi ad attraversare accelerano per dissuaderti con la minaccia di un potenziale investimento.
  • Quelli che rinunciano alle regole base dell’igiene per deliziare chi incontrano con effluvi poco edificanti.
  • Quelli che hanno la Smart e la parcheggiano nei posti blu, dandoti l’illusione che il posto sia libero.
  • Quelli che al cinema o a teatro non spengono il telefono.
  • Quelli che ascoltano i messaggi vocali di fronte a tutti.
  • Quelli che non raccolgono le deiezioni dei loro cani.
  • Quelli che quando devi scendere alla tua fermata, non si spostano di un millimetro dalla loro posizione e devi fare la gimkana per scendere dal mezzo su cui ti trovi.
  • Quelli che buttano i rifiuti a terra, in spiaggia, nel mare, ovunque si trovino.
  • Quelli che all’autogrill o nei bagni pubblici lasciano situazioni imbarazzanti, non preoccupandosi che qualcuno dopo di loro, forse dovrà utilizzare quel bagno.

Mi rendo conto che il rancore nei confronti dei possessori di Smart non è politicamente corretto, ovviamente anche loro hanno il diritto di parcheggiare, ma comunque mi crea degli attriti interiori non da poco incontrare un parcheggio occupato da una Smart. La lista non prevede voci come: bambini rumorosi nei ristoranti, e altre piccole cose che mi infastidiscono ma che non rientrano, suppongo, all’interno di una questione di educazione o meno: a volte i figli, nonostante la buona educazione dei genitori, crescono un po’ come gli pare, e attraversano delle fasi difficili da piccoli Satana che spesso rientrano autonomamente.

Vi prego di deliziarmi con i vostri rancori personali, non fatemi sentire sola in questa situazione. Non so se questo momento di odio nei confronti del mondo è causata dalla lettura che mi sta dilettando in questo periodo. Per farmi più male di quanto il mondo già faccia, sto leggendo Finzioni di Borges. Non mi sono mai sentita all’altezza di leggere Borges, e lo sto affrontando solo ora, constatando che la percezione di non essere in grado di leggerlo è stata esatta e puntuale. Sento di avere per le mani del materiale incandescente, di una certa difficoltà e pieno di citazioni auliche e dottissime: questo non solo acutizza la percezione che io conosca ben poco dello scibile umano, ma mi fa sognare un mondo in cui tutto sia pennellato alla perfezione come nei suoi racconti.

Invece mi confronto quotidianamente con la mancanza di decoro del mondo, e anche mio, perché suvvia non sono esente dall’ aver volontariamente o meno agito in modo maleducato qualche volta. Io però come anticipato, pagherò questo dazio con la barba e i baffi da anziana, e scusatemi, non è poco.

Grandi interrogativi di inizio anno

Mai ‘na gioia

Non me la sento di fare prognostici per questo 2018. Mi spaventa progettare il futuro, o anche solo immaginarlo. Sarà che ci sono troppi elementi traballanti nella mia vita ultimamente, situazioni appese che durano da troppo tempo perché possano resistere incolumi anche quest’anno.  Mi aspetto la famosa resa dei conti che sembra essere lì, ad attendermi, supportata anche da previsioni astrali che mi vedono protagonista di una Waterloo astrologica. Saturno e Urano contro, quadrature di pianeti non ancora conosciuti, Giove in retromarcia. Non che abbia mai creduto alla veridicità degli oroscopi, ma sono anche una persona umile che vede attorno a sé un mondo pieno di fenomeni ben lungi dall’essere conosciuti e spiegati, e quindi chi sono io per dire che non ci sia una connessione fra stelle e destino. Di certo c’è una connessione fra Luna e maree, quindi insomma se i pianeti influenzano il mondo fisico, forse possono anche influenzare quello immateriale.

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Comunque una cosa mi ero ripromessa, di non leggere libri di letteratura russa all’inizio dell’anno, come feci l’anno scorso con Memorie dal Sottosuolo del caro Fëdor, perché la letteratura russa è una specie di maledizione, è tanto bella quanto scava a fondo e iniziare l’anno con un certo grado di profondità impone che quel grado di introspezione tu possa supportarlo durante tutto l’anno, e invece da questo punto di vista sono stata una mezza chiavica: ho perso un sacco di tempo in modo inutile, guardando serie tv improbabili, leggendo riviste femminili prive di utilità, commiserandomi per tutto quello che non funzionava come volevo io, senza fare nulla ovviamente che potesse dare una direzione precisa agli eventi.

Quindi trascinata un po’ come una barchetta spinta dalla corrente, durante il passato 2017 non ho fatto altro che ruotare attorno al perimetro di una vasca ittica da allevamento, compiendo grandi chilometri che di fatto non mi hanno portata da nessuna parte. Forse questa è la vita adulta, non lo so, ma è come se non riuscissi ad accettare questa specie di emorragia di vita che perdiamo quotidianamente lasciando trascorrere le giornate così, come vengono.

Lo trovo lacerante e forse non mi rassegnerò mai, come non riuscirò mai a rassegnarmi al fatto  di non essere nata con il talento di Jane Austen e il genio di Woody Allen.

Forse mi sto preparando a lunedì 15 gennaio che pare sia il lunedì più triste di tutto l’anno, quando ci si rende conto che mancano sei mesi alle vacanze estive e che quelle natalizie sono del tutto archiviate. Io ho passato le vacanze natalizie a letto con l’influenza della vita, ho saltato Natale, Santo Stefano, Capodanno e la Befana. Insomma il Blue Monday mi dovrebbe fare una pippa, invece riesce a deprimermi più di quanto batteri e virus abbiano già fatto.

Mai ‘na gioia, insomma. Mi consolo correggendomi la tisana con il Braulio la sera prima di andare a dormire: forse entro la fine dell’anno riesco a farmi venire la cirrosi epatica  come Bukowski. Vi aggiorno!

Buon Anno a tutti eh!

 

 

Orange is the new black

Contributi stilistici alla Fashion Week

Stamattina in ufficio si è svolta l’esercitazione anti-incendio. Non sarebbe un evento degno di nota se non fossi stata estratta fra cinquecento dipendenti per vestire  la divisa della squadra di emergenza. In poco tempo ho appreso che avrei dovuto vestirmi con caschetto arancione, gilet catarifrangente e scarpe infortunistiche e guidare i miei colleghi all’evacuazione dell’edificio. La mia reazione è stata estremamente ostile, non tanto per la mia assoluta incapacità di mettere in salvo degli esseri viventi (alcuni dei quali, lo ammetto candidamente non avrei salvato dall’ipotetica calamità), quanto più per l’orribile divisa che avrei dovuto indossare e che mi avrebbe reso lo zimbello di tutta l’azienda per i mesi a seguire.

Tutti possono dimenticare qualcosa, ma non se indossi un gilet catarifrangente arancione e un caschetto in tinta che farebbero sembrare poco credibile anche Rita Levi Montalcini.   A questo si aggiungeva anche una certa difficoltà nel portare a termine l’obiettivo desiderato dall’azienda: l’esercitazione non solo prevede la banale evacuazione dell’edificio in caso di emergenza, ma stabilisce che avvenga nei tempi previsti dal regolamento aziendale.

I Sacri Padri  Fondatori del regolamento aziendale (cinici e bari), hanno stabilito che il tempo utile per evitare morte e distruzione in caso di calamità sia intorno agli otto minuti. Otto minuti in cui circa 500 persone disposte su 17 piani devono scendere in modo ordinato da un’angusta scala d’emergenza per raggiungere la strada e posizionarsi in un cosiddetto angolo sicuro, che in questo caso è rappresentato da un quadrante di un incrocio nel centro di Milano.

Forse i Sacri Padri Fondatori avevano escogitato ciò per liberarsi massivamente dei propri dipendenti, teoria che ho provato ad esporre al Responsabile della Sicurezza, il quale però non ha voluto sentire ragioni in merito alla mia possibile defezione.

Così armata di caschetto, gilet e scarpe pesanti ho atteso che il rombo dell’allarme desse il via alla mia impresa. Ordinata e felice ho invitato i colleghi a defluire verso le uscite di sicurezza e una volta certa che tutti avessero prontamente eseguito l’ordine sono uscita a mia volta, incespicando sulle mie nuove scarpe infortunistiche. Ho ignorato le risatine di beffa delle colleghe, gli sguardi di compatimento di altri, e orgogliosa sono uscita dall’edificio, insieme agli altri addetti della sicurezza, che come me condividevano questo infame destino.

La mia espressione di gaudio, una volta giunta all’angolo di sicurezza, unita all’outfit pregiato di cui ero testimone, è stata immortalata da un tale, che in piena Fashion Week ha pensato forse fossi una fashion blogger disagiata, o qualcosa di simile. Ho tentato di inveire e farlo smettere, ma in pochi secondi era sparito, seguendo una koreana con i capelli verde smeraldo.

Forse ora sarò su qualche profilo instagram alla moda, o taggata con qualche hashtag tipo #fashiondiscomfort #crazypeople #italiansdoitbetter #orangeisthenewblack.

E pensare che per condurre una vita lavorativa così vicina a quella del Ragioner Fantozzi ho dovuto fare dei pregevoli studi.

Karl Lagerfeld, salvami tu.

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Tragedie in due battute

Socialità canaglia

Milano, una sera qualunque. La scena si svolge sull’uscio di casa.

A: “Dai ragazzi vediamo di incontrarci più spesso: organizziamo una cena una sera a Milano, anche in settimana, in quaranta minuti io sono qui. O voi venite da me, mi piacerebbe farvi vedere la mia nuova casa!”

Regista: “Volentieri A., non facciamo passare i mesi come di solito.”

A. “Cosi ne approfitto per farvi conoscere la mia nuova bella!”

Miss Chorrì: ” Chi, il tuo nuovo cane?”

A. “No la mia fidanzata”.

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Depressione post-rientro

Da Klimt al Bricocenter

Ci ho messo una settimana a riprendermi dallo shock per la fine delle vacanze e il mio rientro in ufficio. Ho avuto una sequela di sintomi che non ve li racconto, culminati con umori ballerini e voglia repentina di cambiare vita/lavoro/città, se possibile in un’unica formula.

Mentre preda della più cupa disperazione tentavo di affrontare la situazione appellandomi a tutta la farmacologia da banco disponibile, Il CorrieredellaSera.it, mio compagno delle giornate più nere, è venuto in soccorso pubblicando giusto pochi giorni fa una lista delle cose da fare per non incappare nella depressione post rientro.

La lista, sulla quale non avevo grandi aspettative, si è rivelata abbastanza inutile. Aveva uno stile che si collocava a metà fra i consigli della nonna e quelli di Luciano Onder. In alcuni punti il tono si faceva così aziendalista da farmi temere che questa sequela di consigli fossero in realtà redatti da qualche multinazionale cattiva e un po’ inquietante, come la Monsanto o la Bayer.

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Di tutti i consigli poco efficaci presentati, tipo dormi otto ore, ricordati di essere sempre grato di quello che hai, abbraccia i tuoi colleghi e sorridi alla vita, ce n’era uno che mi è sembrato l’unico salvabile e che ho pensato di applicare alla mia situazione, anche con un certo entusiasmo.

Sembra infatti che il rientro sia più dolce, se si mantengono vive le abitudini che ci hanno fatto bene in vacanza e che tendiamo ad accantonare una volta rientrati alla quotidianità. Anche questo a dire il vero sembra un consiglio alla Paolo Crepet, però ho voluto dargli una chance e  ho quindi pensato di progettare il primo week-end di rientro dalle vacanze con attività e gite che sarebbero culminate con la visione della mostra Klimt Experience che c’è al Mudec di Milano.

Non so che cosa sia esattamente questa Klimt Experience, ma pare sia una sorta di mostra interattiva-immersiva con i quadri proiettati sui soffitti, buio e musica di accompagnamento. Una cosa bella, da fare, per chi come me adora la Secessione Viennese.

Ho quindi acquistato il biglietto in prevendita, garantendo a me e al Regista un’entrata snella e priva di coda. Peccato che il destino baro alla mostra non ci abbia fatto arrivare, nonostante i trenta euro non rimborsabili della prevendita avrebbero convinto anche nostro Signore  della bontà di non farci mancare all’evento.

Una congestione fulminante ha costretto il Regista al divano, rantolante e con un colorito ceruleo da rigor mortis. La colpa è stata ovviamente sua, visto che con una parmigiana di melanzane sullo stomaco, un tiramisù e svariati biscottini, ha deciso di portare il cane a passeggio in canottiera, incurante del calo di temperatura portataci dal sempre benvoluto  ciclone Poppea.

Depressa, arrabbiata e con poca voglia di occuparmi del consorte, mi sono trovata a girovagare sotto casa come un’anima in pena cercando di ritrovare il senso perduto della mia domenica. Purtroppo non l’ho trovato, sono solo incappata nel Bricocenter del quartiere, un posto orribile, la patria del bricolage per i depressi, dove ebbra di disperazione ho acquistato una scopa, dei sacchi per la spazzatura e dei panni in microfibra per la casa, che si sa, se ne ha sempre bisogno.

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Non so che cosa avrebbe pensato l’autore dell’articolo sul Corriere del mio tentativo fallito di nobilitare la prima domenica di rientro dalle vacanze.

Io so solo che a quella lista inutile di consigli, mancava quello più importante di tutti: copritevi lo stomaco e evitate i Bricocenter.

Lo spleen spiegato ai bambini

Come erudire le nuove generazioni

Nonostante mi sarebbe piaciuto in questa vita essere un’icona di saggezza e conoscenza, una sorta di versione meno piumosa e più slanciata della famosa nottola di Minerva,  a cui il mondo potesse rivolgersi  per invocare la luce della conoscenza nel buio della ragione, la verità è che no, non lo sono. Conosco per approssimazione e per studi pochissimo della vastità dello scibile umano e  quel poco che so a volte lo confondo creando dei pastiche improbabili di concetti e citazioni. Dentro di me però c’è un Baricco che scalcia, e per accontentarlo compenso offrendo le mie perle letterarie alle categorie più deboli che prendono come oro colato qualsiasi cosa dica, tipo bambini, cani, colleghi tamarri, e così via.

La scorsa settimana infatti ho insegnato a mio nipote, di anni cinque, la parola spleen. Lo vedevo pensieroso, triste e annoiato allo stesso tempo e quando alla mia domanda su cosa avesse, la risposta è stata “Non lo so zia, ma mi sento molto triste”, gli ho detto che forse aveva lo spleen. Completamente ignara della risonanza che questo avrebbe avuto su di lui, e massimamente ignorante sul funzionamento dei bambini e sul gaudio che provano ripetendo le stesse parole migliaia di volte, non solo gli ho detto che aveva lo spleen, ma che sarebbe stato molto bello se lui avesse usato questa parola ogni qualvolta si fosse sentito così.

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Mai ci fu azione più ingenua e azzardata: da quel momento a oggi mio nipote non fa altro che dire a tutti che ha lo spleen, se non vuole mangiare ha lo spleen, se non vuole lavarsi i denti, ha lo spleen, se non vuole andare all’asilo, ha lo spleen. Non contento, spinto dalla verità della conoscenza, ha pensato di condividere questa scoperta con i suoi compagni d’asilo e ora un gruppo di dieci bambini dai tre ai cinque anni, si rifiuta di fare qualsiasi attività imposta dal mondo adulto invocando lo spleen. Spleen che diventa Plin, Plic, Splic, Splin, a seconda della capacità oratoria dell’infante.

Non so se Baudelaire sarebbe stato contento d’essere il poeta e filosofo più amato della classe “Canguri” del nido Gioiosa, ma mi sembra comunque di aver compiuto una buona azione aprendo le menti duttili di questi bambini a un concetto così importante, anche se a un certo punto ho nutrito dei dubbi sulla natura del vero umore di mio nipote: spleen o tedium vitae?

Sicuramente il tedium vitae l’ho fatto venire ai genitori che ora dovranno gestire questa situazione e che forse mi odieranno e mi faranno delle macumbe che si andranno a sommare alla mia situazione di disagio estivo meneghino. Non so voi, ma non mi vedo bene.

Per chi non lo sapesse, il signore in foto è Charles Baudelaire. In realtà non lo sapevo nemmeno io, poi dieci minuti fa ho deciso di cercare che faccia avesse e l’ho trovato. In realtà sembra anche uno simpatico e gioviale dall’espressione, magari lo spleen era tutta un’invenzione modaiola, chissà.

1°Maggio

L’arte della hygge

Oggi era il primo maggio, ma io non me la sono sentita di festeggiare i lavoratori. Festeggiare i lavoratori quando il 70% dei giovani fra i 18 e i 24 un lavoro non ce l’ha e festeggiare tutti coloro che magari il lavoro lo odiano e non lo possono cambiare perché senno ci mettono un lustro a trovarne uno nuovo (io!io!io), mi è sembrato stridente come la cartavetrata al posto della carta igienica. Ho perso la fiducia nei confronti della politica italiana, e ricomincerò a fidarmi di lei, quando vedrò che qualcosa di tangibile verrà fatto per noi giovani, una generazione dal futuro distrutto sul cui presente si specula. Ho passato quindi una giornata sottotono a mangiare in maniera compulsiva, guardando serie tv su Netflix lobotomizzandomi in attesa che qualcosa di imprevisto succedesse, tipo che mi chiamasse qualche zio miliardario mai conosciuto per comunicarmi di essere l’unica erede dei suoi beni, o che improvvisamente il Regista venisse contattato da Steven Spielberg come assistente dando il via alla nostra nuova vita oltreoceano. Niente di questo è ovviamente successo, e complice anche una pioggia battente e un calo delle temperature che ve lo risparmio, ci siamo imbruttiti in casa, incapaci di lenire i nostri reciproci malumori. Solo il cane, che ivi allego in tutta la sua splendente bellezza, ha provato a distrarci disseminando fluidi canini per casa, con l’effetto di farci imprecare in lingue a noi sconosciute, stimolando il nostro apprendimento per le nuove culture.

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Mentre solerte pulivo armata di spazzettone e igienizzanti, pensavo a come vivono i danesi, fondatori della famosa filosofia hygge. Loro in una giornata di pioggia e festa, si sarebbero svegliati con il sorriso, avrebbero salutato il nuovo giorno con tazze di cioccolata calda nelle loro belle case di legno bianco wengé. I bambini, dei piccoli Thor biondi in camiciola tutto l’anno, si sarebbero buttati fra le braccia di mamma e papà a mangiare pan di zenzero spostandosi poi a giocare in silenzio fra di loro. Insieme alla famiglia il cane, uno stupendo golden retriver, sano e giovane, accucciato ai piedi del divano, su cui appoggiate con fare noncurante ci sarebbero state delle coperte all’uncinetto color crema. La giornata, passata ad impastare pane con i bambini, sarebbe proseguita nel pomeriggio: un bel bagno caldo per lei, e una lettura rilassante per lui, con candele profumate accese e dispensatori di oli essenziali. Forse tra un pisolino e l’altro dei bambini sarebbero anche riusciti a fare l’amore, concludendo poi la serata con una vellutata di piselli e semi di zucca, i bambini a letto, e loro due abbracciati a farsi le coccole prima di affrontare una nuova e stupenda giornata di lavoro.

La mia giornata invece è riassumibile in questi brevi ma incisivi passaggi.

  1. Risveglio traumatico alle sette per sveglia che giustamente pensa sia un lavorativo e squilla, la maledetta.
  2. Colazione con qualche fetta biscottata stantia.
  3. Divano, serie tv, lobi occipitali lobotomizzati, refresh isterico del Corriere.it
  4. Pranzo con pasta democratica, aglio olio e peperoncino. Fiatella orribile.
  5. Serie tv Netflix – tentativo di coccole mal riuscito con il Regista a causa di sindrome premestruale e nervosismo.
  6. Lavatrice-lavastoviglie, cena ordinata su Deliveroo con alto tasso di oli idrogenati.
  7. Dopo le 19:00, inizio della depressione comatosa causa rientro in ufficio.
  8. Ore 21:30 a letto con un libro e un’ammiccante bicchierino con 10 gocce di Lexotan da concedersi solo nelle occasioni speciali.

Oggi inoltre c’è stato anche un blackout elettrico del quartiere, e visto che la corrente non rientrava,  ho iniziato ad angosciarmi terribilmente per la potenziale gente bloccata in ascensore. Quindi la vengano a spiegare a me la filosofia hygge i danesi.

C’è di buono che ho iniziato a leggere “Le otto montagne” di Cognetti e lo amo già. Archiviamo questo primo maggio e speriamo per tutti, che il prossimo sia nettamente migliore!

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