Mosaici tristi de li tempi nostri

Cibo, balletti e scrolling infiniti

Ho letto da qualche parte che Stephen King, durante un’intervista, all’annosa domanda, “Da dove ti viene l’ispirazione per i tuoi libri?”, rispose per estrema sintesi che gran parte delle sue idee rispondevano ad una semplice interrogazione che si faceva prima di iniziare a scriverne uno, ovvero “Nella realtà cosa succederebbe se…” e da lì provava ad immaginare scenari in cui elementi in forte contrasto si fondevano, ad esempio cosa succederebbe se un San Bernardo diventasse cattivo, se un clown uccidesse i bambini, se un uomo e la sua famiglia si trovassero in un hotel isolato in montagna e cosi via.

La domanda alla base dei suoi plot narrativi sembrava dunque apparentemente semplice, ma in realtà apriva a molteplici scenari di sviluppo narrativo e più in generale di ragionamento.

Ieri seguendo questa scia mi sono interrogata similmente riguardo a un tema su cui sto riflettendo parecchio nell’ultimo periodo e ho pensato “Cosa succederebbe se alieno sbarcasse sulla terra e per capire meglio la civiltà umana guardasse i contenuti pubblicati su instagram/tik toc? Che idea si farebbe?”.

Dopo aver rimuginato su questa prospettiva ho fatto un elenco delle macro-evidenze non più trascurabili, materiale utile all’ET di turno per trovare un senso a ciò che senso (apparentemente) non ha.

Iniziamo con:

  • fastidiosa propensione ad eseguire balletti in tutte le occasioni: i reel, come diceva dei toscani Stanis La Rochelle, hanno rovinato questo paese. Non c’è marito, fidanzata, famiglia, bambino e animale domestico che non venga obbligato ad ancheggiare al ritmo della hit dell’estate muovendo i pugni in una perenne e ripetitiva danza;
  • massiccia presenza di individui affetti da narcisismo e sindrome del plagio: diffusa è la convinzione che ognuno degli abitanti dei social network abbia qualcosa di interessante e/o unico da comunicare e in virtù di questo assunto combattere il plagio e riguardarsi dai colleghi malelingue è la loro missione di vita;
  • ossessione per il cibo e in particolar modo per le proteine e il mondo fit: il quantitativo di ricette presenti sui social network è assolutamente fuori concorso, l’ossessione per il cibo cucinato, ma soprattutto presentato bene, non ha eguali. In più l’odio per i carboidrati e la predilezione per budini e yogurt proteici potrebbero far pensare a qualche sindrome mondiale da deficit proteico, e invece come sempre è solo marketing;
  •  la grande bellezza del non invecchiare mai: maschere, creme, integratori e trattamenti, per una donna (ma anche per un uomo) essere belli è importante, sempre e in ogni luogo. A dare un extra boost di bellezza ci pensano i filtri, l’imperativo è esserci, agli aperitivi, ai concerti, agli eventi, ovunque valga la pena fotografare un sanpietrino al tramonto con l’hashtag #emozioneunica.
  • gli hater, anche detto l’odio abbassato al livello dei barboncini (è un adattamento di una citazione di Celine che dice “L’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini”). Da quando ci siamo messi in testa che la nostra opinione, in quanto semplicemente nostra, sia necessariamente importante per le sorti del mondo, l’odio da tastiera è diventato protagonista. Insulti gratuiti, diffamazioni, bodyshaming, l’importante è colpire, perché anche con l’odio è meglio essere massimamente ambiziosi.

Terminiamo con:

  • quelli che osservano, sorridono, si indignano e non ammettono che in fondo questo intrattenimento gratuito riempie anche il loro tempo libero, come me medesima che sto qui a scrivere i simposi a Milano, con temperature sub sahariane, sudando e soffrendo come un Giacomo Leopardi, mentre vorrei solo farmi una maschera e ingozzarmi di budini proteici con zero zuccheri e poche calorie.

ps: i barboncini sono dei cani meravigliosi e non so perché Celine ce l’avesse con loro, a titolo di risarcimento gli ho dedicato l’immagine di chiusura di questo post in cui invero si vede la loro nobile espressione che tende all’infinito, sperando  così che la comunità dei Barboncini Uniti non si offenda.

Lezioni di ornitologia

Se anche voi siete degli appassionati cultori della cronaca del belpaese come me, non vi sarà sfuggito qualche giorno fa la notizia dell’attacco di Salvini da parte di un gabbiano romano. Il nostro aitante Ministro dell’Interno stava infatti coraggiosamente salendo sul tetto del Viminale durante una diretta Facebook (che prodezze amici, che prodezze!) quando arrivato sulla cima massima del sacro edificio, un grosso e temibile gabbiano, probabilmente sinistroide, l’ha accerchiato dimostrandogli tutto il suo dissenso a suon di garriti e stridii.

Il video a supporto di questo bizzarro incontro mi ha creato un vero scoppio di ilarità: quando sono triste o arrabbiata, il caldo mi attanaglia e mi fanno male i piedi (come stasera), o quando penso che non so come andranno a finire le cose in questo paese, o a che deriva sociale e di costumi mi toccherà assistere, penso che in fondo c’è una sorta di legge dell’equilibrio nel cosmo, a cui tutti volenti o nolenti siamo soggetti, e che forse non prevede un contrappasso, nel senso più puntuale del termine, ma una sorta di bilanciamento karmico, per cui anche un gabbiano può molto in termini di dissenso sociale.

Trovo anzi che i pennuti che vivono nelle città, insieme ai ratti e agli scarafaggi, siano in generale un grande esempio di resistenza sociale e genetica: nonostante i tentativi di disinfestazione protratti ad opera dell’uomo, resistono e dilagano nelle case, cibandosi dei rifiuti che produciamo e molto e spesso e volentieri propagando orribili malattie, che come la peste nel 300’ (anche se c’è una teoria degli ultimi anni per cui sembra che non siano stati i ratti a veicolarla, ma i pidocchi umani), hanno rischiato di estinguerci. Quindi in fondo, anche Salvini avrebbe dovuto riflettere, e non ignorare l’ira del gabbiano che, forse più di un “mostro pterodattilo”, come da lui definito, rappresenta una sorta di grande feedback cosmico del suo operato.

Io, che sono sempre alla ricerca di segni da leggere sulla bontà della mia condotta, ne sarei grata. Sarebbe rincuorante sapere che, al di là della propria percezione su come stiamo amministrando la nostra vita, nel cosmo esistono dei gabbiani mentori, gratis oltretutto.

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In realtà anche se non ho un gabbiano per amico, credo di essere sulla buona strada come Salvini, perché una gazza, dopo aver bazzicato per mesi sul mio terrazzo, ha deciso di adottarmi. Io le lascio del riso soffiato e in cambio lei mi onora della sua presenza quasi quotidianamente. In questi giorni di caldo matto e infernale, le ho anche messo anche un bacile colmo d’acqua dove poter bagnarsi all’occorrenza. Sembra apprezzi: mi lascia deiezioni felici sul balcone, e ogni tanto, la intravedo dalla finestra spiare dentro casa con uno sguardo curioso.

In un modo strano e anche vagamente antropocentrico, ho stabilito che abbiamo creato un rapporto. Io che sono un po’ romantica e  anche un po’ gitana, l’ho già investita del ruolo di animale guida. Credo che potrei soffrirne in autunno quando migrerà, se migrerà.

Ho scoperto  facendo delle puntuali ricerche su Wikipedia per colmare le mie lacune sull’argomento, che la gazza è uno degli animali più intelligenti di tutti, perché il rapporto fra la grandezza del suo cervello e la grandezza del suo corpo, è paragonabile solo ai cetacei, all’uomo e agli scimpanzé.

Cito:

“Le gazze, infatti, mostrano rituali sociali complessi, che evidenziano la presenza di cognizione socialeimmaginazionememoria episodicaautoconsapevolezza (la gazza è uno dei pochissimi animali ad aver passato con successo il test dello specchio) e perfino del lutto.”

Insomma sembra che la mia amica gazza abbia delle competenze ben superiori a quelle del nostro ministro dell’Interno o della Meloni, che ieri ha proposto di affondare le navi che trasportano i migranti, come se tutto ormai, la vita, la morte, il rispetto del prossimo fosse diventato una grande partita a Port Royal.

Io non ci sto, e anzi mi soffermo a pensare, che forse la mia amica gazza mi ha ricordato qualcosa che già sapevo, ma su cui è sempre bene fare un ripasso: cioè come prendersi cura di qualcuno sia una delle forme più alte di rispetto e empatia, e che l’uomo, auto-proclamandosi l’essere più intelligente di tutto il creato, dovrebbe esserne prode ambasciatore invece di pensare a difendere casa sua e  quello che succede a 10 metri dai suoi perimetri.

 

L’Attesa

Compianta amica dei verdi anni

Uno degli aspetti di cui mi sento più privata da questi tempi balordi è quello dell’attesa. Ci ho riflettuto giusto questo week-end, reduce da un binge watching scatenato che mi ha portata a consumare una serie tv di tipo dodici puntate in due giorni. Nonostante non riuscissi a smettere, posseduta dal demone del consumo folle e incapace di pensare ad altro se non terminarla, alla fine, terminata la scorpacciata, concluso il valzer, visto il finale, non mi sono sentita meglio. Al contrario, ho provato la stessa sensazione del mal di pancia dopo un’indigestione, una sorta di nausea del technicolor, un rifiuto totale della situazione, nonché a conti fatti una totale non comprensione di quello che avevo visto perché concentrato in un lasso di tempo così ristretto.

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Automaticamente ho ripensato a come funzionavano le cose quando ero una bambina, quando non tutto era on demand, anzi quando l’attesa e il pathos erano parte preponderante della mia vita. E non so se sia la classica nostalgia canaglia, o altro, ma mi sembra che tutto fosse sì più complicato, ma anche più bello. Ricordo che si aspettava per giorni, a volte settimane, che un film o un cartone venisse proiettato in tv.  E quando questo succedeva uno dei miei fratelli si piazzava su tappeto una mezz’ora prima, in attesa che la proiezione iniziasse, per poi comunicarlo con un poderoso urlo: “É iniziato, correte”.  E si correva davvero, tutti incollati al televisore, realmente concentrati sulla visione, che magari per mesi o settimane non ci sarebbe più stata.

Questa prospettiva della non ripetizione immediata creava un’emozione molto intensa, e non solo, in qualche modo il messaggio che si riceva aveva qualcosa di pedagogico, si era educati all’idea che non tutto poteva essere posseduto subito e ora. C’erano delle regole e una di quelle regole era saper aspettare. Aspettare che il fidanzatino telefonasse senza sapere quando, aspettare che qualcuno venisse a trovarci senza annunciarsi, aspettare che il proprio cartone preferito andasse in televisione, aspettare l’estate per andare al mare, aspettare per poter avere l’età giusta per restare fuori a dormire e così via.

Negli ultimi anni tutto è cambiato, tutto è diventando on demand. Possiamo decidere quando e come e perché vedere un film o una serie tv (con qualche limitata eccezione), possiamo telefonare e raggiungere qualcuno in qualsiasi luogo e ora, possiamo andare al mare d’inverno, possiamo ordinarci il pranzo, la spesa e qualsiasi cosa senza muoverci da casa, perché qualcuno lo porterà per noi.

È come se le cose del mondo si stiano sempre più organizzando verso l’ego riferimento, verso la risoluzione di qualsiasi tensione o esigenza che proviene dall’io. Egocentriche le cose lo sono sempre state: l’uomo ha  vissuto nel mondo plasmandolo e intervenendo sulla Natura per renderlo più funzionale alla sua vita. Ora sta succedendo una cosa simile ma diversa, perché la tecnologia ha in realtà risposto alle necessità non dell’uomo come categoria, ma del singolo, come individuo, ponendolo al centro dello sviluppo di risposte funzionali. Riduzione dei tempi d’attesa, riduzione della frustrazione, riduzione del contatto con l’Altro, riduzione delle code, riduzione delle complicazioni.

Tutte cose utili e buone, che però hanno spazzato via anche il pathos, la gioia di non sapere, il languore che deriva dal non poter controllare tutto e che porta ad aprirsi alla magia dell’inedito e dello sconosciuto.

Io credo che non ci debba stupire molto di quello che sta succedendo nel mondo in questo momento: si sta organizzando sempre di più una risposta, anche politica, che tutela le necessità del singolo e non della collettività, concetto probabilmente già in via d’estinzione, anche se continuamente citato e caldeggiato.

Comunque, nonostante non sarò io a risolvere gli scabrosi problemi di questa umanità, mi piace pormi  sommi quesiti esistenziali che peggiorano il mio mal di stomaco, problematizzano le mie notti, e mi fanno consumare quantità eccessive di cioccolata.

Per chi volesse approfondire la questione relativa alla nostalgia in modo puntuale, vi lascio questo articolo che la spiega meglio di come la potrei spiegare io. Non abbiate pregiudizi sulla testata che lo pubblica, perché è davvero scritto bene e il tema è davvero interessante e pieno di spunti.

Vorrei però sapere da chi mi legge, se anche voi siete dei nostalgici oppure vi integrate bene nel mondo, e nel caso come fate a gestirla decentemente, ecco. Io onestamente sono abbastanza disastrosa, ma mi piace pensare che nel tempo potrò migliorare!

Gatti in testa

Visioni feline dell’estate corrente

Sono in arretrato con la scrittura più o meno come sono in arretrato con la vita. Questo è il classico momento dell’anno in cui l’unico pensiero persistente e ossessivo riguarda le ferie estive, ovvero il momento in potrò appoggiare la penna alla scrivania e salutare tutti chiudendo il capitolo lavoro e riaprendolo solo a settembre. A questo benedetto e agognato momento mancano ancora quattro settimane, alle quali arriverò probabilmente trascinandomi sui gomiti e con il viso nel fango come Soldato Jane, solo molto meno atletica e molto più sofferente.

Fortunatamente l’estate 2018 appare meno tragica dello scorso anno, e anche se appena la temperatura si alza di qualche grado io penso sempre di morire squagliata in una metro senza aria condizionata, quest’anno sono più ottimista e quasi, ma non vorrei esagerare, positiva.

La verità è che è stato un anno duro, da tutti i punti di vista: ho inaugurato l’anno nuovo con l’influenza del secolo, una crisi di coppia di quelle non da scherzare, una crisi di vita e prospettive lavorative se vogliamo ancora più profonda, attacchi d’ansia e di panico, più altri vari annessi e connessi che la vita ama metterti sul cammino come un Pollicino sadico con il gusto per l’horror.

In mezzo a questo tsunami di situazioni, la lezione che ho imparato e che continuo umile ad imparare ogni giorno è che non si può sfuggire dalla vita, dalle cose, dalle situazioni, dalle rese dei conti. Si può tentare di scansare, schivarle, posticiparle a quando ci sentiremo pronti ad affrontarle, ma tutto torna e prima o poi (sarebbe auspicabile prima che poi ma anche questo è relativo) sono da affrontare. L’unica alternativa è saper gestire il rimpianto e l’inedia, attività nel quale io sono una loser completa. Ho un terreno emotivo su cui attecchiscono con estrema facilità gramigne emotive che poi fatico ad estirpare, anche a causa di una molle pigrizia e di un denso lassismo che fanno parte del mio essere da quando sono al mondo.

E alla fine, quando si rimanda in aeternum, si sta nel mondo con un gatto in testa che disturba la visuale. Programmare, pensare, progettare, diventano difficili perché c’è un costante elemento perturbativo che fa inciampare, oscillare, cadere. Io alla mia ansia ho dato più o meno questa forma e queste caratteristiche feline, mi ci sono anche affezionata, perché posso dare la colpa a lei per tutto quello che non faccio e che sta sfuggendo di mano nella mia vita.

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Se siete anche voi degli addicted alle sindromi ansiogene e volete mettere alla prova i vostri muscoli  e la vostra resistenza psicologica agli orrori, vi suggerisco di pensare a intraprendere la lettura di 2666 di Roberto Bolaño. Io l’ho fatto in questi mesi, e nonostante mi sia venuto il tunnel carpale reggendo in metropolitana per più di 60 giorni un libro da almeno un chilo (900 pagine circa)  e abbia una perenne nevralgia alla spalla destra (dove lo mettevo in borsa), sono orgogliosa di poter dire di averlo letto.

È un’opera molto complessa, e io sono come sempre una delle persone meno adatte quando si tratta di parlare di libri (mi stanco subito e la faccio corta), ma in un contesto sociale così difficile come l’attuale, mi piace dare questi suggerimenti che aprono a scenari e sfide ancora più complicate, perché mi distraggono un po’ dalle ultime sortite del nostro comune amico Salvini.

Il testo, che Adelphi ha pensato bene di accorpare in un unico tomo, è suddiviso in 5 romanzi indipendenti. Questo vuol dire che potete leggerli nell’ordine che preferite, io l’ho letto nell’ordine canonico perché sono una che non ama improvvisare.

Parlarvi della trama o semplificarla, è cosa ardita, perché in realtà 2666 è un romanzo dentro al romanzo, in cui parallele ad un plot che lega le diverse parti dell’opera si intrecciano altre storie, personaggi secondari, trame alternative che hanno la stessa importanza e sviluppo di quella principale. Non vi capita mai leggendo un libro di pensare, ah ma adesso questo personaggio cosa farà? Ma la cugina della sorella di Pip è morta o è viva? E l’oste a cui D’Artagnan ha distrutto la locanda poi cosa avrà fatto?

Ecco 2666 è la risposta a tutte le trame secondarie mai raccontate nella storia della letteratura. Va da sé che non è una lettura da spiaggia, anzi è molto impegnativa, rutilante, caotica e in molti tratti dispersiva. Anche perché Bolaño è un maestro della citazione, conosce un’ampia fetta dello scibile umano che spazia dalla storia, arte, letteratura, musica e non manca di stupirti con delle perle rare che inserisce con grazia all’interno del suo narrare. Probabilmente come me, vi appassionerete di più alle trame secondarie che a quella principale.

Per rendere però questa micro discussione su 2666 una vera infamia, non vi racconterò brevemente cosa succede, perché prima non c’è un modo breve per raccontarlo, secondo perché per quello esistono le quarte di copertina o qualsiasi sito offre quasi sempre una breve sintesi dell’opera migliore  di quella potrei fare io.

Vi posso dire però che se amate il Messico, la seconda guerra mondiale, i misteri, il sesso, la letteratura, e avete lo stomaco forte per resistere a quasi 400 pagine di descrizioni dettagliate di femminicidi (donne mutilate, stuprate, impalate) e non ultimo amate Bolaño, trovatevi due mesi di tempo per leggerlo perché come tutte le cose difficili nella vita, poi la ricompensa è sempre all’altezza.

Per finire, volevo suggerirvi una giusta colonna sonora per la lettura di questo libro, visto che ho una persona a cui voglio molto bene, con un gusto raffinato per la musica (che io non ho) e che consulto sempre utilitaristicamente (ma anche e soprattutto perchè mi piace avere a che fare con lei) per farmi suggerire brani contro i problemi del quotidiano (dormire, rilassarsi, leggere, andare in palestra, sclerare) e che, salvo rare eccezioni (pezzi troppo selezionati per un orecchio ignorante come il mio) ci ha sempre azzeccato. Però visto che sto ancora deliberando sulla colonna sonora migliore magari ve la scrivo nel prossimo post.

Ringrazio al solito i miei cinque/sette lettori di sempre, che nonostante le mie sparute sortite sul blog mi danno fiducia e mi leggono. Potrebbe anche essere che ci capitino per sbaglio, ma non è che questo ai miei occhi abbia meno importanza.

Alla ricerca del senso perduto

Riflessioni prezzemoline sulla vita

Per chi se lo stesse chiedendo, sono sopravvissuta alla cena aziendale. L’infausto evento si è verificato lunedì sera e devo dire che tutto sommato l’ho attraversato con un aplomb degno di un membro della Royal Family. La sorpresa questa volta, ha evitato il coinvolgimento di intrattenitori da bagaglino ormai destinati all’oblio, ma ci ha proposto un ben più divertente prestigiatore di nome GianLupo. GianLupo ci ha dilettati con piccoli e innocui giochi di magia e ha goduto della mia massima stima quando è riuscito a trasformare i miei cinque euro in una banconota da cinquecento.

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Purtroppo l’illusione è durata pochi secondi, giusto il tempo per immaginare come li avrei spesi, dopodiché mi sono stati restituiti nella loro forma originaria.

La serata è stata breve e indolore e nonostante ci fossi arrivata con umore tetro, non l’ha peggiorato e questo devo dire che è veramente un miracolo, visto che la mia azienda, una multinazionale cattiva cattiva, è in grado di ideare cose orribili, travestendole da cose apparentemente belle e propinandole ai propri collaboratori come  fantastiche.

Comunque il Natale si avvicina, Milano inizia a svuotarsi di tutti coloro che raggiungono le proprie famiglie per festeggiare, c’è chi è contento, chi scontento, chi non vede l’ora che finisca tutto, chi aspetta tutto l’anno di riunirsi ai propri cari. Non credo ci sia una regola e ogni reazione emotiva ha la propria dignità, sicuramente il momento si presta più di altri a delle riflessioni e visto che anche io ogni tanto metto in fila qualche neurone e lo faccio girare come nel Girmy mi esporrò toccando un argomento che se fossi veramente intelligente non toccherei, ma tant’è, anche la mia maestra delle medie diceva che non ero tanto sveglia e quindi lo faccio.

La settimana scorsa ho avuto modo di vedere il documentario di Rosi, “Fuocoammare”. Era tempo che volevo guardarlo, ne avevo sentito parlare per i premi vinti, ma non l’avevo mai visto anche se il buon Netflix me lo suggeriva da tempo.

Eviterò i facili buonismi e i volemose bene, che sono urticanti e lo sappiamo tutti, e mi concentrerò su quello su cui io poi ho riflettuto di più, ovvero il significato di essere uomini, con tutte  le implicazioni etiche del caso.

Il documentario, che è molto lento registicamente parlando, altro non fa che mettere una grande lente di ingrandimento su Lampedusa, sui suoi abitanti, e a latere ad illustrare quello che succede duranti i perdurati sbarchi di immigrati di cui noi tutti siamo a conoscenza.

Si racconta la vita, per quella che è, con le sue noie, le visite dal medico, il sugo al pomodoro e le pulizie di casa, il tempo brutto che impedisce ai pescatori di uscire in mare. All’interno di questa narrazione, si insinua poi il punto di rottura e il rumore di sottofondo non è più lo scroscio del mare, ma le registrazioni telefoniche delle marina italiana, quando fra pianti e urla di disperazione arrivano le richieste di aiuto.

Così, con la freddezza con cui si raccontano le altre vicende, si introduce uno spaccato di mondo disumano, dove la disperazione fa da padrona e dove ci sono cadaveri, ustioni da benzina, annegamenti e  recuperi di corpi che galleggiano in mare. Uomini, donne, anziani, donne incinte, bambini. C’è l’intervista al responsabile del Pronto Soccorso di Lampedusa, con gli occhi dolci e tristi di chi ne ha viste troppe, ma di chi non scansa la  responsabilità di curare i vivi e sezionare i morti.

Voglio restare volutamente generica perché ognuno possa guardarlo, magari in un momento propizio, non tanto per  la sua trama o la regia, che poteva anche essere migliore, ma per riflettere sul senso dell’umanità, cosa di cui si fa gran berciare in questo Natale.

Io penso una cosa, che investire tutti i risparmi della propria vita per pagarsi un viaggio in cui sai esattamente che potresti morire, e salire su una barcaccia  per attraversare il mare e vedere se mai riuscirai ad arrivare dall’altra parte, con la tua famiglia, per sfuggire alla fame, alla guerra, alle persecuzioni e alla disperazione, è molto più vicino al vero senso della vita che tutto il resto. Perché tu in quel momento la tua vita sei disposto a metterla su piatto, tanto hai poco da perdere.

E questo non si può ignorare, non si può fingere che tutto questo non stia accadendo, non si può risolvere tutto con qualche accordo politico. Certo non si può fare nemmeno i buonisti e non ammettere che anche l’integrazione è di fatto un problema, enorme, soprattutto per un Paese come l’Italia, in cui tutto è lento e faticoso e molto spesso corrotto.

Però alla vita non si può rispondere che con la vita, e non so esattamente come questa cosa che sento forte possa poi diventare realtà concreta, ma credo davvero che con le nostre scelte possiamo riscoprirci ogni giorno più umani, non tanto nel senso letterale, ma come individui.

Forse dovremmo aprirci di più al mondo, abbandonando le facili tecnologie che sembrano connettere tutto e niente connettono, strofinarci gli occhi troppo appannati dal benessere, e avere il coraggio di guardare dove invece è più facile distogliere lo sguardo. Credo fermamente che il contatto umano, l’empatia con il prossimo restino ancora uno dei sacri pilastri delle necessità etiche dell’uomo, e anzi credo che se ci sarà qualcosa che fermerà questa giostra impazzita di mondo confuso, sarà proprio questo.

Quindi che questo Natale vi possa portare tanto senso, senso di vita, senso di sentirci tutti, parte di un grande sistema umano che ci sta chiedendo delle riflessioni a cui non possiamo esimerci. Visto che non c’è mai tempo per farlo, prendiamoci questo momento per pensarci ora.

Spero che questa riflessione non risulti troppo confusa, ma continuavo a pensarci e avevo bisogno di dargli una forma tangibile.

Detto questo, ora torno ad essere l’alunna meno intelligente e con scarse probabilità di miglioramento della mia classe delle medie ed ebbra di gioia che da domani sono in ferie, con il sottofondo di Last Christmas degli Wham vi auguro tante buone cose!

Ornellona nazionale

Più Vanoniterapia per tutti

Questo post ha subito notevoli trasformazioni prima di essere scritto. All’inizio volevo spendere qualche commento sul vincitore del premio Nobel per la Letteratura Kazuo Ishiguro, poi però ho realizzato di essere massimamente impreparata sull’argomento,  e quindi  per evitare di fare figure barbine ho pensato di  sostituirlo con una riflessione su un tema che nell’ultimo periodo mi è molto caro: ovvero la musica classica.

Mi ero fatta tutta una mappa mentale su come affrontare l’argomento senza sembrare una fighetta snob che non ascolta Justin Bieber ma nutre il suo udito con Mozart e compagnia bella, (anche perché la mia conoscenza della musica classica è lacunosa e priva di preparazione), ed ero giunta a un buon risultato: avevo deciso di parlare di come la musica classica, o meglio alcuni autori in particolare, mi stiano e abbiano aiutato molto nella mia lotta contro l’ansia. E mentre ero in metropolitana e la mia mente stava elaborando mentalmente tutto quello che poi avrei messo per iscritto, è arrivata lei e come un fulmine mi ha travolta, cancellando tutti i buoni propositi su Chopin, Čajkovskij, Bach e altri amici.

Di chi sto parlando? Ma dell’Ornellona Nazionale, l’unica e inimitabile Vanoni. É spuntata così, in una playlist “Viaggi in metro” di Spotify  a cui mi sono iscritta, con quella sua voce un po’ roca e cantilenante. Subito mi sono fatta rapire dalla malinconia del testo e della melodia del brano, “Domani è un altro giorno”.

L’inizio è tipo così :

È uno di quei giorni che
Ti prende la malinconia
Che fino a sera non ti lascia più…

Vi metto qui il video che un po’ di Ornellona fa bene a tutti e così  ve l’ascoltate e aumentate l’empatia nei miei confronti, come insegna lo zio Stanislavskij.

Comunque dopo aver sofferto con lei per tutta la durata del brano, e non potendo non invidiarle la scelta della sua chioma arancio che nel tempo non ha mai tradito, ho deciso di farmi una specie  di indigestione di Vanoni e ho scoperto che oltre ad avere una discografia piuttosto ampia, le sue canzoni trattano di amori, sfighe, politica, carcerati calabresi, bande criminali, incontri sessuali. Non si faceva mancare niente l’Ornellona (neanche con il botox si è trattenuta molto nell’ultimo decennio)!. Il tutto declinato con uno stile musicale unico e inconfondibile, tra il jazz e la canzone d’autore.

Giorno dopo giorno mi sono trovata sempre di più ad ascoltarla, sulla metro, mentre cucino, quando sento che mi sta salendo quel pizzico d’angoscia che ogni tanto mi coglie così, mentre svolgo le attività più inspiegabili e che compromette il mio quotidiano inserendo una sorta di spiacevole stridore di sottofondo.

Non so se è proprio la Vanoni in sé che mi evoca questa lievità d’animo o il ricordo che genera la sua musica e che rimanda alle mie estati al mare da bambina, con mia nonna che accendeva il giradischi e metteva lei e Gino Paoli mentre preparava la cena e mi districava i lunghi capelli ingarbugliati e secchi dopo una giornata di mare.

Quella musica così leggera e spensierata, si accordava così bene al mio stato d’animo di allora: forse è proprio il ricordo di quel periodo della mia infanzia la mia vera bolla anti-ansia.

Non so, potrei speculare e riflettere per ore su questo argomento, fatto sta che ad oggi, undici ottobre 2017, Ornellona è entrata nell’empireo degli autori musicali che mi aiutano a lenire il male di vivere quotidiano.

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Credo che Bach, Mozart e Chopin, non potranno che essere felici di avere tra loro questa nuova e conturbante compagna di avventura: si sa che all’Ornella il maschio ci piaceva!

 

 

 

Il mondo alla fine del mondo

Riflessioni semi serie sulla civiltà

Vorrei introdurre in modo serio e obiettivo l’argomento di cui mi preme parlare. Ma non credo sarò in grado. Oggi mi sono involontariamente ubriacata e sono tutt’ora in ufficio a fare i conti con la molestia etilica, che mi fa ridere del tragico e piangere del comico.

Mi sono mezza ubriacata con un litro di té Kombucha. Cosa che solo io posso fare. Ne ho acquistato una bottiglia in un negozio biologico sotto l’ufficio perché la commessa mi ha garantito mi avrebbe aiutata con la digestione. Ho pensato, che, come dicevano i saggi latini, melius est abundare quam deficere, e dal bicchierino dopo pasto sono giunta a terminare la bottiglia. Nessuno mi aveva però informata che le bevande fermentate rilasciano alcool, l’ho scoperto quando ho iniziato a sentirmi inspiegabilmente felice e ho capito che non era l’effetto delle endorfine secrete dalle mie sfasate ghiandole endocrine, ma del buon vecchio etanolo.

Ho subito pensato che era una situazione troppo stuzzicante per evitare di approfittarne e quindi ho iniziato a scrivere, così senza obiettivi particolari, se non riportarvi un pensiero che da tempo mi perseguita.

L’altro giorno ho fatto un collage delle notizie riportate dalla prima pagina del Corriere Della Sera, il quotidiano online per cui nutro una forma di malcelata ossessione. Da un lato mi intrattiene, dall’altro lo biasimo per la perdita di qualità che ho potuto osservare negli ultimi anni. Continuo comunque ad abusarne perché è l’unico sito di informazione non bloccato dalla LAN aziendale.

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Non so cosa ne pensiate voi, ma mi è sembrata la Giornata Internazionale dell’Apocalisse, La Gazzetta del Terrore, la versione distopica del Burning Man. E tutti i giorni è così, ormai da tempo.

Non ne sono sicura (in quanto essere dubitante, passo al vaglio tutte le mie percezioni quotidianamente) ma sono abbastanza certa che il ruolo dell’informazione e dell’opinione pubblica non sia quello di limitarsi a comunicare la notizia, ma a contestualizzare i fatti, indagare le cause, creare dibattiti, formare idee.

Non trovo niente di tutto questo nell’attuale sistema giornalistico, ma solo una morbosa ossessione per la cronaca, l’allarmismo, l’appiattimento intellettuale. Certo non sono giorni facili questi che il mondo sta attraversando, anzi.  Ci stiamo destreggiando in una sorta di Basso Medioevo della modernità, dove il sonno della ragione sta generando mostri di proporzioni abnormi.

Il ruolo dell’informazione in questo panorama sempre più frastagliato, complesso e se vogliamo precario, dovrebbe essere quella di un grande collettore ricompattante, una sorta di Vinavil concettuale che prende le tessere di un mosaico impazzito e da un’immagine schizoide ne crea una intelligibile.

Ci vuole molto cuore nel vivere con questa accortezza la propria professione, ma sono abbastanza convinta che ci siano alcuni ambiti in cui l’etica e la vocazione personale debbano essere un aspetto imprescindibile.

Tipo, se fai la commessa da Zara magari non ti serve, ma se decidi di fare il giornalista, il medico, il politico, l’insegnante, dovresti avere una maggiore sensibilità etica e morale. Tutti forse, in realtà dovremmo averla.

Comunque vi vorrei consigliare questo libro: “Il mondo alla fine del mondo” di Luis Sepulveda. È un romanzo breve, sono circa un centinaio di pagine, il classico libro di intermezzo che si può inserire fra una lettura di un’opera più corposa e un’altra.

La storia è molto semplice, c’è un giornalista che lavora per un’agenzia indipendente specializzata in disastri ambientali, che riceve la notizia di una baleneria giapponese il cui equipaggio è stato trovato massacrato al largo della Terra del Fuoco.

Il perché del massacro è un mistero e il giornalista, deciderà di partire per il Cile per indagare.

Ci sono tante cose in queste cento pagine, si parla di giornalismo, di famiglia, di ambiente, di animali, di sofferenze e massacri, ma anche speranza. L’ho trovato in alcuni punti di una delicatezza commuovente. È così che si dovrebbe collettare la realtà, macinandola attraverso le parole per dargli una nuova vita, con umanità.

Vi lascio con Sepulveda, il suo sorriso simpatico (gli amanti di Boris noteranno certo una somiglianza con René Ferretti) e la garanzia che se cercate uno sballo legalizzato nei vostri uffici, il Kombucha fa al caso vostro.

sepulveda

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