Mosaici tristi de li tempi nostri

Cibo, balletti e scrolling infiniti

Ho letto da qualche parte che Stephen King, durante un’intervista, all’annosa domanda, “Da dove ti viene l’ispirazione per i tuoi libri?”, rispose per estrema sintesi che gran parte delle sue idee rispondevano ad una semplice interrogazione che si faceva prima di iniziare a scriverne uno, ovvero “Nella realtà cosa succederebbe se…” e da lì provava ad immaginare scenari in cui elementi in forte contrasto si fondevano, ad esempio cosa succederebbe se un San Bernardo diventasse cattivo, se un clown uccidesse i bambini, se un uomo e la sua famiglia si trovassero in un hotel isolato in montagna e cosi via.

La domanda alla base dei suoi plot narrativi sembrava dunque apparentemente semplice, ma in realtà apriva a molteplici scenari di sviluppo narrativo e più in generale di ragionamento.

Ieri seguendo questa scia mi sono interrogata similmente riguardo a un tema su cui sto riflettendo parecchio nell’ultimo periodo e ho pensato “Cosa succederebbe se alieno sbarcasse sulla terra e per capire meglio la civiltà umana guardasse i contenuti pubblicati su instagram/tik toc? Che idea si farebbe?”.

Dopo aver rimuginato su questa prospettiva ho fatto un elenco delle macro-evidenze non più trascurabili, materiale utile all’ET di turno per trovare un senso a ciò che senso (apparentemente) non ha.

Iniziamo con:

  • fastidiosa propensione ad eseguire balletti in tutte le occasioni: i reel, come diceva dei toscani Stanis La Rochelle, hanno rovinato questo paese. Non c’è marito, fidanzata, famiglia, bambino e animale domestico che non venga obbligato ad ancheggiare al ritmo della hit dell’estate muovendo i pugni in una perenne e ripetitiva danza;
  • massiccia presenza di individui affetti da narcisismo e sindrome del plagio: diffusa è la convinzione che ognuno degli abitanti dei social network abbia qualcosa di interessante e/o unico da comunicare e in virtù di questo assunto combattere il plagio e riguardarsi dai colleghi malelingue è la loro missione di vita;
  • ossessione per il cibo e in particolar modo per le proteine e il mondo fit: il quantitativo di ricette presenti sui social network è assolutamente fuori concorso, l’ossessione per il cibo cucinato, ma soprattutto presentato bene, non ha eguali. In più l’odio per i carboidrati e la predilezione per budini e yogurt proteici potrebbero far pensare a qualche sindrome mondiale da deficit proteico, e invece come sempre è solo marketing;
  •  la grande bellezza del non invecchiare mai: maschere, creme, integratori e trattamenti, per una donna (ma anche per un uomo) essere belli è importante, sempre e in ogni luogo. A dare un extra boost di bellezza ci pensano i filtri, l’imperativo è esserci, agli aperitivi, ai concerti, agli eventi, ovunque valga la pena fotografare un sanpietrino al tramonto con l’hashtag #emozioneunica.
  • gli hater, anche detto l’odio abbassato al livello dei barboncini (è un adattamento di una citazione di Celine che dice “L’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini”). Da quando ci siamo messi in testa che la nostra opinione, in quanto semplicemente nostra, sia necessariamente importante per le sorti del mondo, l’odio da tastiera è diventato protagonista. Insulti gratuiti, diffamazioni, bodyshaming, l’importante è colpire, perché anche con l’odio è meglio essere massimamente ambiziosi.

Terminiamo con:

  • quelli che osservano, sorridono, si indignano e non ammettono che in fondo questo intrattenimento gratuito riempie anche il loro tempo libero, come me medesima che sto qui a scrivere i simposi a Milano, con temperature sub sahariane, sudando e soffrendo come un Giacomo Leopardi, mentre vorrei solo farmi una maschera e ingozzarmi di budini proteici con zero zuccheri e poche calorie.

ps: i barboncini sono dei cani meravigliosi e non so perché Celine ce l’avesse con loro, a titolo di risarcimento gli ho dedicato l’immagine di chiusura di questo post in cui invero si vede la loro nobile espressione che tende all’infinito, sperando  così che la comunità dei Barboncini Uniti non si offenda.

Lezioni di ornitologia

Se anche voi siete degli appassionati cultori della cronaca del belpaese come me, non vi sarà sfuggito qualche giorno fa la notizia dell’attacco di Salvini da parte di un gabbiano romano. Il nostro aitante Ministro dell’Interno stava infatti coraggiosamente salendo sul tetto del Viminale durante una diretta Facebook (che prodezze amici, che prodezze!) quando arrivato sulla cima massima del sacro edificio, un grosso e temibile gabbiano, probabilmente sinistroide, l’ha accerchiato dimostrandogli tutto il suo dissenso a suon di garriti e stridii.

Il video a supporto di questo bizzarro incontro mi ha creato un vero scoppio di ilarità: quando sono triste o arrabbiata, il caldo mi attanaglia e mi fanno male i piedi (come stasera), o quando penso che non so come andranno a finire le cose in questo paese, o a che deriva sociale e di costumi mi toccherà assistere, penso che in fondo c’è una sorta di legge dell’equilibrio nel cosmo, a cui tutti volenti o nolenti siamo soggetti, e che forse non prevede un contrappasso, nel senso più puntuale del termine, ma una sorta di bilanciamento karmico, per cui anche un gabbiano può molto in termini di dissenso sociale.

Trovo anzi che i pennuti che vivono nelle città, insieme ai ratti e agli scarafaggi, siano in generale un grande esempio di resistenza sociale e genetica: nonostante i tentativi di disinfestazione protratti ad opera dell’uomo, resistono e dilagano nelle case, cibandosi dei rifiuti che produciamo e molto e spesso e volentieri propagando orribili malattie, che come la peste nel 300’ (anche se c’è una teoria degli ultimi anni per cui sembra che non siano stati i ratti a veicolarla, ma i pidocchi umani), hanno rischiato di estinguerci. Quindi in fondo, anche Salvini avrebbe dovuto riflettere, e non ignorare l’ira del gabbiano che, forse più di un “mostro pterodattilo”, come da lui definito, rappresenta una sorta di grande feedback cosmico del suo operato.

Io, che sono sempre alla ricerca di segni da leggere sulla bontà della mia condotta, ne sarei grata. Sarebbe rincuorante sapere che, al di là della propria percezione su come stiamo amministrando la nostra vita, nel cosmo esistono dei gabbiani mentori, gratis oltretutto.

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In realtà anche se non ho un gabbiano per amico, credo di essere sulla buona strada come Salvini, perché una gazza, dopo aver bazzicato per mesi sul mio terrazzo, ha deciso di adottarmi. Io le lascio del riso soffiato e in cambio lei mi onora della sua presenza quasi quotidianamente. In questi giorni di caldo matto e infernale, le ho anche messo anche un bacile colmo d’acqua dove poter bagnarsi all’occorrenza. Sembra apprezzi: mi lascia deiezioni felici sul balcone, e ogni tanto, la intravedo dalla finestra spiare dentro casa con uno sguardo curioso.

In un modo strano e anche vagamente antropocentrico, ho stabilito che abbiamo creato un rapporto. Io che sono un po’ romantica e  anche un po’ gitana, l’ho già investita del ruolo di animale guida. Credo che potrei soffrirne in autunno quando migrerà, se migrerà.

Ho scoperto  facendo delle puntuali ricerche su Wikipedia per colmare le mie lacune sull’argomento, che la gazza è uno degli animali più intelligenti di tutti, perché il rapporto fra la grandezza del suo cervello e la grandezza del suo corpo, è paragonabile solo ai cetacei, all’uomo e agli scimpanzé.

Cito:

“Le gazze, infatti, mostrano rituali sociali complessi, che evidenziano la presenza di cognizione socialeimmaginazionememoria episodicaautoconsapevolezza (la gazza è uno dei pochissimi animali ad aver passato con successo il test dello specchio) e perfino del lutto.”

Insomma sembra che la mia amica gazza abbia delle competenze ben superiori a quelle del nostro ministro dell’Interno o della Meloni, che ieri ha proposto di affondare le navi che trasportano i migranti, come se tutto ormai, la vita, la morte, il rispetto del prossimo fosse diventato una grande partita a Port Royal.

Io non ci sto, e anzi mi soffermo a pensare, che forse la mia amica gazza mi ha ricordato qualcosa che già sapevo, ma su cui è sempre bene fare un ripasso: cioè come prendersi cura di qualcuno sia una delle forme più alte di rispetto e empatia, e che l’uomo, auto-proclamandosi l’essere più intelligente di tutto il creato, dovrebbe esserne prode ambasciatore invece di pensare a difendere casa sua e  quello che succede a 10 metri dai suoi perimetri.

 

Rassegnazione, what else?

Di cene di Natale e libri da leggere

É domenica sera, a Milano nevica, e io dopo aver omaggiato i fiocchi di neve con piroette degne della Fracci e di uno spot natalizio della Bauli, ed essere rovinosamente scivolata sul marciapiede rischiando di rompermi una rotula, sento di aver dato tutto quello che potevo al Natale.

Ma proprio tutto. Il mio spirito hygge, la mia gratitudine si sono spente ancora prima che l’evento si realizzi e nonostante mi sia già levata con gioia l’incombenza dei regali, sto scivolando lentamente in una sorta di  pacifica rassegnazione circa tutto quello che si presenterà nelle prossime settimane: cene e aperitivi aziendali, pranzi con suocere e famigliari, lavoro matto e disperato pre-ferie.

Vorrei sentirmi il re del mondo come Leonardo di Caprio sulla prua del Titanic, ma mi sento più come quello che suonava isterico la campanella mentre avvistava l’iceberg.

Di certo sopravviverò anche quest’anno e diventerò una persona migliore, sorriderò di fronte al fumetto color grigio topo della zuppa di pesce di mia suocera, ringrazierò lieta di fronte al 9999 bagnoschiuma ricevuto come regalo, giocherò al tombolone con la mia famiglia, e disquisirò sull’ eterna diatriba  pandoro o panettone.

Probabilmente il momento peggiore sarà la cena aziendale. L’anno scorso c’era Pino Insegno come intrattenitore: a metà serata ho finto di stare male e me ne sono andata a casa, proprio nel momento in cui stava per venire proiettato il video motivazionale: Andiamo a Fatturare, con la base gentilmente mutuata da Rovazzi.

Quest’anno dicono ci sarà una sorpresa, cosa che di certo non promette nulla di buono, e più il momento si avvicina, più immagino tutti i dirigenti della mia azienda riuniti al 18°esimo piano olimpionico ad escogitare modi per renderci la cena di Natale più ostica di quanto già lo sia. Da anni ormai i posti vengono assegnati come ai matrimoni e viene meno anche l’unica ancora di salvezza, ovvero sedersi al tavolo con qualche collega giusto e darsi all’alcool.

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Per tutti coloro che si trovano nella mia situazione e non hanno voglia di cedere, almeno non completamente, a questa ondata di buonismo natalizio, suggerisco un libro. Ci ho messo quasi due mesi a finirlo, perché un po’ ostico, ma credo meriti di essere citato perché scritto bene e molto politicamente scorretto.

Si tratta di “É successo qualcosa” di Joseph Heller, un libro per diversi aspetti difficile, ma estremamente interessante.  Anzitutto è rognoso perché è difficile da trovare, nel senso che non esistono ristampe e quindi io l’ho recuperato acquistandolo su Amazon già usato. Secondo, perché nonostante sia un libro scritto divinamente, è ostico come pochi libri mi sono capitati per mano.

Non so se qualcuno di voi conosce Joseph Heller, ma è l’autore di “Comma 22”, uno dei libri icona della letteratura americana. Uno di quei libri che ha venduto tipo dieci milioni di copie, più o meno come i followers di instagram della Ferragni.

Comunque non contento di questi buoni risultati, dopo qualche anno il buon Joseph pubblica “É successo qualcosa”, che arriva dritto nelle mie mani in un giorno d’autunno del 2017.

La trama è semplice e allo stesso tempo complessa da spiegare, perché di fatto non succede nulla per quasi seicento pagine. O meglio c’è un evento nella vita del protagonista che innesca una sorta di stream of consciousness che costruisce l’impianto narrativo di tutto il libro.

Il progonista è Bob Slocum, un americano benestante che lavora in una multinazionale, a cui viene offerta una promozione lavorativa, motivo che lo porterà ad interrogarsi sulla sua vita e sui rapporti con la sua famiglia e i suoi figli.

Ogni capitolo è dedicato ad un componente del suo nucleo famigliare: Slocum vive con la moglie e tre figli, di cui uno disabile, in una ricca zona di una non precisata cittadina americana, e a differenza di quanto ci si possa aspettare, Bob odia la sua famiglia.

Non sopporta la moglie e la tradisce periodicamente con altre donne, odia sua figlia maggiore che lo tormenta accusandolo di essere un pessimo padre, odia il figlio disabile e desidera muoia il prima possibile per liberare la famiglia della sua presenza. L’unico per cui prova una sorta di forma di affetto è l’altro figlio, un ragazzino sensibile che ricorda a Bob sé stesso da bambino e con cui comunque i rapporti andranno deteriorandosi nel tempo.

Anche i suoi rapporti di lavoro  sono governati dall’odio e dalla paura, i suoi colleghi sono così impersonali da essere chiamati con i nomi dei colori: Mr. Green, Mr. White, Mr. Brown (forse una citazione quella di Tarantino nelle Iene?) e vanno a costituire un microcosmo aziendale assolutamente moderno (potrebbe essere quello di qualsiasi azienda dei nostri tempi).

In questo contesto decisamente ansiogeno, composto da paura, odio, indifferenza dei legami famigliari, l’unico motivo di gioia per Slocum è il ricordo un vecchio amore giovanile,  e il sesso, visto come unico aspetto che connette il protagonista alla realtà.

Non so se vi ho persuaso, ma merita di essere letto. Non è facilissimo da sostenere, perché tutte queste pagine di monologo interiore lo rendono poco scorrevole a tratti, ma è scritto divinamente e vale almeno un tentativo. Nonostante sia stato scritto negli anni 70′, c’è tutta l’America di adesso fra quelle pagine, tutti i valori di una delle società fra le più contraddittorie, osservati con un cinismo e una lucidità che delizia.

Vi lascio il link di IBS, dove ne risultano disponibili poche copie, se comunque non lo trovaste sono disposta a spedirlo al pazzo/a che si facesse convincere dalla mia descrizione a leggerlo.

https://www.ibs.it/successo-qualcosa-libri-vintage-generic-contributors/e/5000000069051

Diamoci al book sharing perbacco, in fondo a Natale siamo tutti più buoni!

Orange is the new black

Contributi stilistici alla Fashion Week

Stamattina in ufficio si è svolta l’esercitazione anti-incendio. Non sarebbe un evento degno di nota se non fossi stata estratta fra cinquecento dipendenti per vestire  la divisa della squadra di emergenza. In poco tempo ho appreso che avrei dovuto vestirmi con caschetto arancione, gilet catarifrangente e scarpe infortunistiche e guidare i miei colleghi all’evacuazione dell’edificio. La mia reazione è stata estremamente ostile, non tanto per la mia assoluta incapacità di mettere in salvo degli esseri viventi (alcuni dei quali, lo ammetto candidamente non avrei salvato dall’ipotetica calamità), quanto più per l’orribile divisa che avrei dovuto indossare e che mi avrebbe reso lo zimbello di tutta l’azienda per i mesi a seguire.

Tutti possono dimenticare qualcosa, ma non se indossi un gilet catarifrangente arancione e un caschetto in tinta che farebbero sembrare poco credibile anche Rita Levi Montalcini.   A questo si aggiungeva anche una certa difficoltà nel portare a termine l’obiettivo desiderato dall’azienda: l’esercitazione non solo prevede la banale evacuazione dell’edificio in caso di emergenza, ma stabilisce che avvenga nei tempi previsti dal regolamento aziendale.

I Sacri Padri  Fondatori del regolamento aziendale (cinici e bari), hanno stabilito che il tempo utile per evitare morte e distruzione in caso di calamità sia intorno agli otto minuti. Otto minuti in cui circa 500 persone disposte su 17 piani devono scendere in modo ordinato da un’angusta scala d’emergenza per raggiungere la strada e posizionarsi in un cosiddetto angolo sicuro, che in questo caso è rappresentato da un quadrante di un incrocio nel centro di Milano.

Forse i Sacri Padri Fondatori avevano escogitato ciò per liberarsi massivamente dei propri dipendenti, teoria che ho provato ad esporre al Responsabile della Sicurezza, il quale però non ha voluto sentire ragioni in merito alla mia possibile defezione.

Così armata di caschetto, gilet e scarpe pesanti ho atteso che il rombo dell’allarme desse il via alla mia impresa. Ordinata e felice ho invitato i colleghi a defluire verso le uscite di sicurezza e una volta certa che tutti avessero prontamente eseguito l’ordine sono uscita a mia volta, incespicando sulle mie nuove scarpe infortunistiche. Ho ignorato le risatine di beffa delle colleghe, gli sguardi di compatimento di altri, e orgogliosa sono uscita dall’edificio, insieme agli altri addetti della sicurezza, che come me condividevano questo infame destino.

La mia espressione di gaudio, una volta giunta all’angolo di sicurezza, unita all’outfit pregiato di cui ero testimone, è stata immortalata da un tale, che in piena Fashion Week ha pensato forse fossi una fashion blogger disagiata, o qualcosa di simile. Ho tentato di inveire e farlo smettere, ma in pochi secondi era sparito, seguendo una koreana con i capelli verde smeraldo.

Forse ora sarò su qualche profilo instagram alla moda, o taggata con qualche hashtag tipo #fashiondiscomfort #crazypeople #italiansdoitbetter #orangeisthenewblack.

E pensare che per condurre una vita lavorativa così vicina a quella del Ragioner Fantozzi ho dovuto fare dei pregevoli studi.

Karl Lagerfeld, salvami tu.

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Tragedie in due battute

Socialità canaglia

Milano, una sera qualunque. La scena si svolge sull’uscio di casa.

A: “Dai ragazzi vediamo di incontrarci più spesso: organizziamo una cena una sera a Milano, anche in settimana, in quaranta minuti io sono qui. O voi venite da me, mi piacerebbe farvi vedere la mia nuova casa!”

Regista: “Volentieri A., non facciamo passare i mesi come di solito.”

A. “Cosi ne approfitto per farvi conoscere la mia nuova bella!”

Miss Chorrì: ” Chi, il tuo nuovo cane?”

A. “No la mia fidanzata”.

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Giuliacci aiutaci tu

Nuove frontiere della meteorologia

E come ogni anno arriva la sindrome dei fenomeni meteo, con gli annessi nomi che fanno da corollario a questo delirio. Scipione, Giuda, Caronte, el Ninõ, la Ninã, la Pinta e la Santa Maria. Ignoro se questo fenomeno sia tipicamente italiano, se siamo gli unici che ci dobbiamo sciroppare questo conio a cui ha dato inizio ilmeteo.it, o se gli altri stati europei hanno la grazia di avere previsioni meteo più scientifiche.  Fatto sta che siamo in Italia, e la scientificità e la sobrietà nell’affrontare le situazioni sembrano essere sempre meno nel nostro DNA. Bisogna  urlare per fare sentire la propria voce in questo Paese, in cui se giaci in un letto pieno di formiche in un ospedale, puoi pensare che qualcuno intervenga solo se finisci sulle pagine di qualche quotidiano. O se per creare un po’ di audience devi scomodare dalla tomba Muzio Scevola e appiopparci il nome dell’uragano di turno.

Forse hanno iniziato gli americani con questa cosa, non so la questione merita un approfondimento perchè mi sta logorando. Ogni estate infatti è sempre peggio e sempre più all’insegna dell’allarmismo, come se urlare questa cosa e ammorbarci la vita con l’afa potesse aiutarci a viverla meglio o a cambiare le cose. Siamo già condannati a vite in cui lavoriamo per la maggior parte del tempo a tutte le temperature caro ilmeteo.it, non ci aiuterai a lenire il nostro spleen esistenziale prevedendo caldo orribilis e tremendus fino a settembre. Ci farai solo venire voglia di tirare testate contro il muro e piangere in lingue a noi sconosciute.

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Devo dire che il caldo non è mai stato un problema per me, fino a quando non mi sono trasferita a Milano e ho iniziato a vivere l’estate con crescente apprensione. Perché effettivamente la sensazione di calore costante e l’afa opprimente e la calura che non ti lascia neanche di notte, sono infernali. Ogni anno penso che non sopravvivrò e morirò e ogni anno invece sopravvivo. Questa è una grande lezione di vita, perché sono giunta a conclusione che le cose che pensiamo ci uccideranno non lo faranno. Lavori che odiamo, persone che non sopportiamo, i dolori, la cafoneria della gente, il caldo estivo e Berlusconi che abbraccia gli agnelli a Pasqua. State tranquilli cari amici, queste cose non ci uccideranno, ci logoreranno forse, ma ci lasceranno in vita, solo con i cabasisi un po’ più gonfi e bassi.  Per chi ce li ha. Possiamo solo sperare che prima o poi torni il gusto per le cose di un tempo, il meteo alla vecchia maniera con Giuliacci in televisione, la bacchetta e la cartina dell’Italia.

Nel frattempo auguro a tutti di avere l’aria condizionata in casa e non vivere a Milano. Se si verifica almeno una delle due condizioni, cari amici, siete salvi, al contrario, sappiate che avete tutta la mia solidarietà. Bevete molto sempre e comunque! Meglio non alcolici, ma se volete farvi un cicchetto per la disperazione sappiate che non vi biasimo.

 

Miopia

Quando il sogno non diventa realtà

Quando ero adolescente e iniziavo ad impattare con la realtà ero fermamente convinta che crescendo le cose sarebbero migliorate. Sarebbe migliorato il rapporto con me stessa e forse anche il mondo. Senza dubbio ero certa che avrei smesso di indossare gli occhiali a goccia che i miei mi avevano comprato per compensare l’orribile miopia che si era manifestata funesta ai miei dodici anni. Mi accorsi che qualcosa non andava con la mia vista, perché scambiavo tutti gli uomini che vedevo da lontano per mio Zio Felice, non importa se si trattasse di venditori di aspirapolvere, postini o vigili. Per semplificarmi la vita, ogni volta che qualcuno suonava al campanello dei miei, lo facevo entrare certa che fosse un volto conosciuto. Questo ovviamente non era considerato un bene dalla mia famiglia, che dopo aver ipotizzato un attaccamento eccessivo allo zio, mi portò dall’oculista, validando i dubbi che erano sorti in merito alla mia vista. Ne uscii, non potendo gran che scegliere fra le montature anni novanta dell’ottico del paese, con un paio di occhiali alla Steve di Otto sotto un Tetto: enormi, improbabili, assolutamente orribili.

Li odiavo a tal punto da toglierli per la maggior parte del tempo, continuando quindi a salutare gente che non conoscevo per strada, cosa che in fondo mi piaceva, perché mi aiutava a superare l’invalidante timidezza da cui ero affetta.

Jaleel White

In quella fase, in cui facevo a patti con gli sbalzi d’umore adolescenziali, con la goffaggine e l’assoluta inadeguatezza del mio essere, guardavo con speranza al futuro e mi immaginavo a trent’anni come una grande figa francese che avrebbe insegnato Letteratura in qualche Università nel mondo, con un paio di occhiali da vista alla moda, un marito filosofo, una casa di campagna in Provenza e tre bambini biondi, belli e sorridenti. Quell’adolescente impacciata e timida, con il seno piatto e la montatura d’occhiali improbabile, sognava il suo futuro disegnandone i contorni con speranza.

Ora che ho trent’anni (vado per i trentaquattro) e neanche una delle suddette condizioni si è avverata, guardo al futuro con meno ottimismo. A onor di cronaca una si: da sei anni divido infatti la difficoltà dell’esistenza con il Regista, mio amato compagno di vita, che pur non essendo filosofo, esercita una professione nell’ambito video-artistico cosa che fa di lui  a tutti gli effetti un umanista. Per il resto nulla è migliorato, continuo a sbattere la testa contro la mia incapacità di stare al mondo in modo efficiente e l’universo non mi sembra stia andando una direzione positiva per il proseguimento della vita. Ora che si sono messi a bisticciare anche Trump e il capo della Corea del Nord, gli scenari diventano sempre più apocalittici.

Per non cadere vittima della depressione di fronte al mio lavoro impiegatizio in un’orribile multinazionale, al salario risicato e alle mille difficoltà di vita che si stanno palesando sulla mia strada, fantastico sui miei sessant’anni prorogando alla seconda parte della mia vita la realizzazione di alcuni dei miei sogni, chiaramente ridimensionati all’età. Quindi mi immagino attraversare con facilità la menopausa, evitando l’osteoporosi e gli acciacchi, riuscendo forse a rientrare nel mondo della cultura grazie alla terza Università, magari madre di qualche giovane che immagino all’estero a perseguire i propri sogni, ancora compagna del Regista, che spero nel frattempo sia diventato, almeno lui, il nuovo Sorrentino.

Sognare non costa nulla, diceva qualche saggio di cui ora non ricordo il nome e che non ho voglia di cercare su Google, ma magari stasera,  nonostante la mia montatura di occhiali mi piaccia molto, proverò a toglierli, porterò il cane a fare il suo giretto e saluterò gente che non conosco, così per ricordare la mia tenerezza adolescenziale e perché no per farmi nuovi amici fra gli anziani che vivono nella mia zona, e che  a quanto pare sembrano gli unici socievoli nella bella Milano.

Maledetta Primavera

Che fretta c’era!

Ebbene si, la Primavera è arrivata. Già da qualche settimana devo dire, ma io sono abbastanza lenta a interiorizzare i cambiamenti del contesto che mi circonda, soprattutto climatico. Quindi passo sempre attraverso fasi progressive di rifiuto in cui continuo a mettere capi d’abbigliamento invernale, finché prostrata dall’evidente  gioia di cui il mondo si sazia di fronte ai fiori, agli uccellini e alle belle giornate di sole, capitolo anche io.

Non è mai una capitolazione indolore, io mal sopporto il caldo e qualsiasi fase mi avvicini all’estate lombarda mi getta nello sconforto, riportandomi ai dolorosi ricordi dell’estate 2015:  al colmo della disperazione da caldo, quando nemmeno il condizionatore riusciva a refrigerare il mio appartamento, mi coricavo la notte con le cariche del freezer dentro le lenzuola, pregando numi pagani per farmi addormentare.

Inoltre una bella giornata di sole con il cielo terso, che rende grazia persino a Milano, acuisce l’insofferenza per la mia vita da ufficio, che mi vede protagonista, come molti altri, di interminabili giornate seduta alla scrivania  intenta ad occuparmi di cose che non mi interessano e spesso mi mortificano, ma che sono l’unica soluzione per il procacciamento del vivere quotidiano. Quindi in questi giorni, non faccio altro che fare un refresh isterico della pagina Ilmeteo.it, per fare delle valutazioni ponderate su come sarà l’estate 2017. Se qualcuno che mi legge è meteorologo,  si faccia avanti e dica la sua.

Comunque, giusto per evitare che questo post diventi oggetto delle mie deliranti idee sulla vita primaverile, tornerò a bomba sul perché  dovreste leggere David Copperfield. Non mi soffermerò su tutti i motivi critico-letterari, di cui potrete leggere i solluccheri sui vari blog migliori del mio, ma su motivazioni più pragmatiche, ma altrettanto nobili.

  • La compagnia. David Copperfield è un libro di mille pagine, per cui tolto che siate Mandrake o leggiate una pagina ogni dieci, sarà un libro che vi terrà compagnia per un lasso di tempo variabile, ma sicuramente superiore a una settimana. I libri che mi fanno compagnia per un certo periodo, mi restano sempre più nel cuore di quelli che riesco a finire in qualche giorno e che mi lasciano sempre con l’amara sensazione di una botta e via. Leggere David Cooperfield è come avere una relazione, breve se vogliamo, ma si sperimentano tutte le fasi, entusiasmo, distacco, noia, ripresa dell’entusiasmo etc.
  • Il tempo. Essendo un romanzo di formazione, o come piace dire agli amici “teteschi”, Bildungsroman, David Cooperfield, narra la vita del simpatico David a partire dalla nascita sino ai suoi trent’anni. Quindi, tolto che siate dei mostri privi di cuore, vi affezionerete subito al ragazzino e tiferete per lui e starete male per le sue sventure, come se fosse un vostro amico, o un parente, o tutte e due messi insieme. Non solo, considerato il genio indiscusso di Dickens nella creazione dei personaggi, vi affezionerete a tutti, alla zia Betsey, al Signor Micawber a Peggoty e vi dispiacerete,  come ho fatto io, quando il libro sarà finito.
  • La modernità. Dickens mi fa rivedere le mie posizioni sugli scrittori russi. Voi direte, embé, quindi? Quindi è importante. Perché la modernità estrema (non solo di prosa, ma anche di prospettive) che ho potuto riscontrare leggendo questo libro, è sicuramente differente da quella di Dostoevskij, ma altrettanto grandiosa. Per altro pare che il buon Fedor fosse un lettore accanito di Dickens e che anzi David Cooperfield fosse il suo libro preferito (potrebbe essere una Chiarata questa, verificatela). Il libro è pervaso di etica, di storia, di umorismo, di disperazione e di felicità, infuse in maniera suberba.
  • Scene di addio/morte. Non so se questo sia un plus o meno, ma io ve lo dico lo stesso, Dickens è un drago nel descrivere le scene di addio e/o morte. Fanno venire i brividi, sono così intense che le devi rileggere duecento volte, per capire come fa.  Io che amo molto i momenti di tensione melodrammatica l’ho trovato incantevole.

Non andrò oltre, in primis perché superate le trenta righe, io stessa non leggerei un post così lungo, secondo perché dovete correre a comprare David Cooperfield. Possibilmente non su Amazon,  ma in qualche libreria che ha bisogno del vostro acquisto.

Se volete potete iniziare a leggerlo sulle note della Goggi, che con Maledetta Primavera ci sistema tutti, altro che global warming.

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Settimana della moda

L’insostenibile inadeguatezza dell’essere

E anche questa settimana della moda ce la siamo levata dalla scatole. Sono felice che si sia tornati al regolare intasamento metropolitano, e soprattutto gioisco nel non vedere più valchirie minorenni dalla bellezza sfolgorante camminarmi accanto.

Il mio personale contributo all’ esploit modaiolo di questi giorni, che in parte esplicita anche il mio interessamento alla questione, è stato girare per Milano vestita con cappotto,  cappello e sciarpa neri, leggins blu oceano e stivaletti color carne. Un’improbabile accozzaglia di colori che neanche La Rettore nei suoi momenti di gloria ha eguagliato. Il dettaglio di stile che impreziosiva il tutto era dato da delle striature immonde sui leggins, trasparenti ed equivoche, generate dal rovesciamento involontario di sciroppo per la tosse a base di bava di lumaca. Non avendo cambi a portata di mano ho dovuto girare così un sabato pomeriggio, creando ilarità e sorrisi di compatimento negli sguardi che incrociavo.

Comunque se devo dirla tutta, iniziare l’anno con Memorie dal Sottosuolo non è risultato essere una scelta propiziatoria, almeno dal punto di vista prettamente fisico/salutistico. Dopo essere infatti sopravvissuta alla prima ondata di influenza, sono caduta preda anche dalla seconda, inaugurando ufficialmente il 2017 come uno degli anni in cui le mie difese immunitarie si sono dimostrate un completo fallimento. Certo ho manifestato una sintomatologia differente dalla precedente, per cui se prima avevo bronchite-raffreddore-febbre questa volta ho potuto sperimentare l’accoppiata faringite- tracheite- tosse che si è dimostrata certo più persistente e fastidiosa della precedente. Anche in questo caso, quando in preda alla disperazione e assolutamente convinta di aver contratto la meningite ho pensato che sarei morta, sono invece sopravvissuta, grazie anche alle parole di conforto del mio medico di base, che ha ben pensato di liquidare la mia pratica al telefono, comunicandomi che se avessi avuto la meningite non avrei avuto il tempo di discorrere così amabilmente con lui.

Nel frattempo niente di nuovo è accaduto alla mia vita, se non che sono giunta a pagina seicento di David Copperfield, e ammetto di esserne sempre più entusiasta. Charles Dickens è un genio. Parlo al presente perchè se ti permetti di scrivere libri del suo calibro, alla fine non muori mai.  Sono al punto in cui David è un giovanotto e si è anche un po’ ripreso, per fortuna, dalle sfighe della sua infanzia, ma credo si appresti a nuovi dolori e delusioni. Vi terrò aggiornati. Comunque sono così entusiasta che sono finita su Etsy cercando una copia  datata del libro da collezionare, ovviamente di non pregevole fattura, che mi consentisse di dedicargli un posto privilegiato nella mia libreria, e  sono incappata in questo negozio, the Locket Library,  che mi ha fatto letteralmente impazzire.

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Praticamente questa ragazza fa piccoli gioielli con le copertine dei libri, collane, bracciali, orecchini. Io non ho potuto esimermi dal comprare un ciondolo con la copertina di David, ovviamente. Sarò orgogliosa di indossarlo con i miei maglioni dai colori improbabili, slumacati dai vari rimedi popolari anti ipocondria di cui mi avvalgo.

ps: vi consiglio di non sottovalutate la bava di lumaca come sciroppo, è la svolta!

 

 

 

Tu chiamale se vuoi emozioni

Milano, o cara

Oggi è una bella giornata. Facendo un refresh isterico sulle statistiche di wordpress ho realizzato, con somma emozione, che in questi giorni  ho avuto cinque visitatori.

Cinque visitatori mi sembrano tantissimi. Sto provando ad immaginarmi da ore i loro volti da casuali avventori. Più che altro mi chiedo come siano approdati a misschorri. Probabilmente stavano cercando altro e il fato li ha voluti condurre su questa disastrosa pagina, che  oltre a dimostrare le mie scarse capacità nell’uso di wordpress non renderà il mondo un posto migliore.

O forse lo renderà, considerato che migliorando il mio umore sono più avvezza a elargire sorrisi e quindi a riversare molecole di felicità nell’aria di Milano, che diciamocelo pure, di felicità ne ha assai bisogno.

Ho quest’idea, personalissima e ovviamente contestabile, che la gente a Milano non sia felice.  Non voglio farne una legge universalmente incisa nelle sacre pietre bibliche,  però basta guardare un po’ le facce in giro per farsi un’idea. Pochi sorrisi, molta nevrosi, gente che corre, spinge e urta, psicosi da terrorismo.

Io nonostante ci viva da tre anni, sono ancora nella fase della negazione freudiana. Mi sveglio la mattina e mi infliggo delle punizioni corporali per verificare che non sia tutto un sogno. Quando mi rendo conto che sto solo bruciando minuti preziosi alla colazione, passo alla fase dell’accettazione e affronto la dura realtà. Il rituale si ripropone identico dal lunedì al venerdì, d’estate anche nei festivi.

Il momento peggiore, quello in cui di norma, mi riprometto di licenziarmi, trasferirmi in cima a una montagna e occuparmi di pastorizia, è quando affronto la metropolitana.

L’esperienza, ammettiamolo, può essere anche inverosimilmente preziosa e formativa, ma solo per chi è disposto ad imparare. Si può venire spesso demoralizzati dal poco spazio pro capite a disposizione, dalle condizioni estreme dei vagoni (caldo soffocante d’estate e freddo ibernante d’inverno), dall’invadenza dei costumi delle persone che la frequentano (gente che discute al telefono di dettagli intimi della propria vita, gente che non si toglie lo zainetto anche se si è in 500 in 5mq, gente che impone le proprie scarse regole di igiene personale e i loro conseguenti effluvi) e dalle innumerevoli interruzioni del servizio per uomini ritrovati in galleria,  tragici suicidi e presunti pacchi bomba.

Vi posso però garantire che chi sopravvive, acquisisce una tempra che lo aiuta a scalare la dura piramide dell’evoluzione. Darwin si è fermato all’Homo Sapiens, perché ai suoi tempi le metro non c’erano. Ma sono sicura che nel caso ci fossero state avremmo avuto l’Homo Metrus. Con lo zainetto, ovviamente.

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