Non ce né coviddì

Tempi duri e maledettamente scomodi

C’è voluta una pandemia mondiale, due chili in più sul girovita, mesi di reclusione dagli umori incerti e un accumulo di noia mortale per farmi decidere a scrivere di nuovo.

Qualcuno potrebbe pensare che evidentemente la scrittura per me non è una pratica attrattiva, ma in realtà è l’esatto contrario. Mi sento investita di un’enorme responsabilità quando scrivo e quindi se non si verificano tutte le condizioni imprescindibili perché ciò accada (quindi quasi mai) non lo faccio. Da lì a far passare un anno e mezzo dal mio ultimo post forse è un tantino esagerato, anche perché facilmente si possono creare delle aspettative sulla movimentata vita che posso aver condotto negli ultimi 365 giorni. Mi sarebbe infatti piaciuto moltissimo tornare e raccontare le mie esaltanti peripezie, ma in realtà potete immaginarmi esattamente al punto dell’anno scorso: con un lavoro che non amo nella bella Milano, e come tutti voi a fare i conti con questa pandemia, di cui, spero conveniate, avremmo tutti fatto volentieri a meno.

Io in primis, visto che oltre all’evidente dispendio di vita che questo virus ci ha imposto (non che si tratti di averci necessariamente sottratto di tempo di qualità) ho sviluppato avversione profonda per una nutrita folla di individui: detesto tutto e tutti, giornalisti, politici, governatori e virologi. Non sopporto i miei vicini che non fanno altro che litigare tutto il giorno, non sopporto me stessa e il mio essermi trasformata nella versione femminile di Oblomov, stesa per la maggior parte del tempo sul divano, vestita 24h al giorno con delle tute improbabili, chiamate anche comfy, (nell’ultimo disperato tentativo di dare loro una dignità), mentre mi abbuffo di cibo industriale che appaga la mia noia e si adagia morbido e voluttuoso sui miei fianchi morbidini.

Quindi per quanto io voglia cercare di trovare qualche aspetto positivo nella situazione in cui mi trovo, ci troviamo, non ci riesco. Alla fine di questa pandemia probabilmente i miei muscoli saranno completamente atrofizzati, e la soddisfazione per aver fatto germogliare i diciotto semi di avocado che ho messo a bagno non sarà sufficiente a restituirmi un sistema cardio muscolare efficiente.

Anche perché nonostante sia tentata, non riesco a credere alla retorica un po’ buonista che questo virus abbia messo alla luce le fragilità del sistema in cui viviamo e che quando tutto sarà finito, saremo delle persone diverse, e il mondo sarà un luogo migliore dove si innescheranno dei cambiamenti virtuosi. Io credo semplicemente che quando tutto questo sarà finito tornerà esattamente tutto come prima, con un sottofondo di incattivimento generale che questi anni così difficili avranno depositato nei nostri animi.

Magari mi sbaglio, ma dalla mia nuova Postazione della Saggezza (il divano), stesa come una matrona romana sul triclinio mentre spilucco la cena di McDonald, sento che non me la sento di essere troppo ottimista.

E’ un lusso che non mi posso permettere perché in caso di aspettative disattese mi troverei  come Britney Spear nella sua fase difficile: fuori controllo, con la testa rasata, un ombrello come amico e la voglia di spaccare tutto.

2019, o caro!

Buoni propositi, anche detti la dittatura delle liste

E anche questa volta, nonostante le profezie Maya ci volessero estinti lustri fa, siamo arrivati all’inizio di un nuovo anno. Non so mai come approcciarmi alla questione “nuovi inizi”, provo sempre una serie di sensazioni contrastanti che spaziano dalla tristezza alla consapevolezza che più gli anni avanzano più diventa necessario cercare il cambiamento, perché il flusso delle cose che accadono nella vita adulta di un individuo lavorante è relegato ai noiosi fatti della routine.

Così non sopporto le revisioni entusiastiche di fine anno tipo: ho mangiato in tanti ristoranti, ho letto tanti libri, ho viaggiato tanto, ho cucinato e imparato a ballare la polka, non tanto per il concetto in sé, che anzi è giusto e buono e sacrosanto e vero, ma perché non riesco a fare a patti con il fatto che questo sia il massimo che una persona possa aspettarsi da un anno di vita appena trascorso.

Ho un problema probabilmente (anzi sicuramente), anche perché i miei ultimi anni sono stati così complicati e duri che dovrei rendere grazia ai corsi di cucina se mai ne avessi fatto uno, e invece riesco solo a non sopportare questo delirio di revisioni e buoni propositi che mi circonda.

Io non li faccio, il mio unico buon proposito, che resta relegato nella sfera dell’impossibile, è ritirarmi in campagna come una nobildonna inglese con il solo pensiero di sfoltire i miei cespugli di rosa con un tronchesino e proteggerli dagli afidi. Pare più un sogno che un buon proposito, ma sono dell’idea che bisogna essere massimamente ambiziosi se si tratta di porsi degli obiettivi, sempre e comunque.

Quindi faccio capolino in questo 2019 con delle aspettative abbastanza realistiche, anche perché come dice il detto, Roma non è stata costruita in un giorno, e aspettarmi cambiamenti epocali da una situazione sulla quale non sto lavorando non solo non è costruttivo, ma anche infantile. L’unica cosa di cui sono certa, è che se mi prefiggerò degli obiettivi, resteranno nell’iperuranio delle idee libere e non li metterò per iscritto.

La questione delle liste infatti mi infastidisce assai: odio questo dilagare delle liste imperanti, liste di libri da leggere, liste di motivi per cui essere grati, liste di propositi, liste di superfood: comprendo l’utile e proficuo metodo dell’appuntarsi le cose, che però io delego a quello che non sopporto fare, tipo la spesa o le attività che devo svolgere in ufficio, perché in entrambi i casi mi dimentico spesso quello che non amo affrontare.

Trovo anche che ci sia un certo misunderstanding di fondo in questa questione, ovvero se sei davvero coinvolto da una situazione, da un’idea o da un messaggio, sei un evidente portavoce vivente di quell’idea e non è necessario fare del proselitismo o appuntarti che per quell’anno perché ti piace leggere, leggerai 100 libri. O che sei davvero grato alla vita, perché scrivi tutte le sere le cose per cui sei grato. O che sei vero amante di cinema, perché te ne guardi 1000 all’anno.

Certo, sono anche conscia del prezioso potere dello scripta manent verba volant, ma comunque ho una certa avversione ideologica, forse un poco snob, per questi fenomeni di costume. Questo è un mio grande limite e difetto: mi perdo dei pezzi di vita a star a guardare quello che non mi piace, lo trovo ipnotico e bellissimo, come guardare i film trash tipo Sharknado.

Comunque, che io lo voglia o meno il 2019 è iniziato, e non so bene quello che succederà, ma so che se sono riuscita a sopravvivere dal 2015 al 2017 (anni funestissimi e pieni di pensieri, troppi pensieri), probabilmente sopravviverò anche a questo, tolto che qualche squalo inizi a piovere dal cielo!

s-kT2G-U4303023433584N1D-593x443@Corriere-Web-Sezioni

Buon Anno a tutti!

Grandi interrogativi di inizio anno

Mai ‘na gioia

Non me la sento di fare prognostici per questo 2018. Mi spaventa progettare il futuro, o anche solo immaginarlo. Sarà che ci sono troppi elementi traballanti nella mia vita ultimamente, situazioni appese che durano da troppo tempo perché possano resistere incolumi anche quest’anno.  Mi aspetto la famosa resa dei conti che sembra essere lì, ad attendermi, supportata anche da previsioni astrali che mi vedono protagonista di una Waterloo astrologica. Saturno e Urano contro, quadrature di pianeti non ancora conosciuti, Giove in retromarcia. Non che abbia mai creduto alla veridicità degli oroscopi, ma sono anche una persona umile che vede attorno a sé un mondo pieno di fenomeni ben lungi dall’essere conosciuti e spiegati, e quindi chi sono io per dire che non ci sia una connessione fra stelle e destino. Di certo c’è una connessione fra Luna e maree, quindi insomma se i pianeti influenzano il mondo fisico, forse possono anche influenzare quello immateriale.

35387-Fig_-5pazienza_jpg_1171891105

Comunque una cosa mi ero ripromessa, di non leggere libri di letteratura russa all’inizio dell’anno, come feci l’anno scorso con Memorie dal Sottosuolo del caro Fëdor, perché la letteratura russa è una specie di maledizione, è tanto bella quanto scava a fondo e iniziare l’anno con un certo grado di profondità impone che quel grado di introspezione tu possa supportarlo durante tutto l’anno, e invece da questo punto di vista sono stata una mezza chiavica: ho perso un sacco di tempo in modo inutile, guardando serie tv improbabili, leggendo riviste femminili prive di utilità, commiserandomi per tutto quello che non funzionava come volevo io, senza fare nulla ovviamente che potesse dare una direzione precisa agli eventi.

Quindi trascinata un po’ come una barchetta spinta dalla corrente, durante il passato 2017 non ho fatto altro che ruotare attorno al perimetro di una vasca ittica da allevamento, compiendo grandi chilometri che di fatto non mi hanno portata da nessuna parte. Forse questa è la vita adulta, non lo so, ma è come se non riuscissi ad accettare questa specie di emorragia di vita che perdiamo quotidianamente lasciando trascorrere le giornate così, come vengono.

Lo trovo lacerante e forse non mi rassegnerò mai, come non riuscirò mai a rassegnarmi al fatto  di non essere nata con il talento di Jane Austen e il genio di Woody Allen.

Forse mi sto preparando a lunedì 15 gennaio che pare sia il lunedì più triste di tutto l’anno, quando ci si rende conto che mancano sei mesi alle vacanze estive e che quelle natalizie sono del tutto archiviate. Io ho passato le vacanze natalizie a letto con l’influenza della vita, ho saltato Natale, Santo Stefano, Capodanno e la Befana. Insomma il Blue Monday mi dovrebbe fare una pippa, invece riesce a deprimermi più di quanto batteri e virus abbiano già fatto.

Mai ‘na gioia, insomma. Mi consolo correggendomi la tisana con il Braulio la sera prima di andare a dormire: forse entro la fine dell’anno riesco a farmi venire la cirrosi epatica  come Bukowski. Vi aggiorno!

Buon Anno a tutti eh!

 

 

Alla ricerca del senso perduto

Riflessioni prezzemoline sulla vita

Per chi se lo stesse chiedendo, sono sopravvissuta alla cena aziendale. L’infausto evento si è verificato lunedì sera e devo dire che tutto sommato l’ho attraversato con un aplomb degno di un membro della Royal Family. La sorpresa questa volta, ha evitato il coinvolgimento di intrattenitori da bagaglino ormai destinati all’oblio, ma ci ha proposto un ben più divertente prestigiatore di nome GianLupo. GianLupo ci ha dilettati con piccoli e innocui giochi di magia e ha goduto della mia massima stima quando è riuscito a trasformare i miei cinque euro in una banconota da cinquecento.

1451935754874.jpg-renzi_e_finito__ucciso_da_17_big_esotericicosi_il_divino_otelma_ha_sconvolto_il_voto

Purtroppo l’illusione è durata pochi secondi, giusto il tempo per immaginare come li avrei spesi, dopodiché mi sono stati restituiti nella loro forma originaria.

La serata è stata breve e indolore e nonostante ci fossi arrivata con umore tetro, non l’ha peggiorato e questo devo dire che è veramente un miracolo, visto che la mia azienda, una multinazionale cattiva cattiva, è in grado di ideare cose orribili, travestendole da cose apparentemente belle e propinandole ai propri collaboratori come  fantastiche.

Comunque il Natale si avvicina, Milano inizia a svuotarsi di tutti coloro che raggiungono le proprie famiglie per festeggiare, c’è chi è contento, chi scontento, chi non vede l’ora che finisca tutto, chi aspetta tutto l’anno di riunirsi ai propri cari. Non credo ci sia una regola e ogni reazione emotiva ha la propria dignità, sicuramente il momento si presta più di altri a delle riflessioni e visto che anche io ogni tanto metto in fila qualche neurone e lo faccio girare come nel Girmy mi esporrò toccando un argomento che se fossi veramente intelligente non toccherei, ma tant’è, anche la mia maestra delle medie diceva che non ero tanto sveglia e quindi lo faccio.

La settimana scorsa ho avuto modo di vedere il documentario di Rosi, “Fuocoammare”. Era tempo che volevo guardarlo, ne avevo sentito parlare per i premi vinti, ma non l’avevo mai visto anche se il buon Netflix me lo suggeriva da tempo.

Eviterò i facili buonismi e i volemose bene, che sono urticanti e lo sappiamo tutti, e mi concentrerò su quello su cui io poi ho riflettuto di più, ovvero il significato di essere uomini, con tutte  le implicazioni etiche del caso.

Il documentario, che è molto lento registicamente parlando, altro non fa che mettere una grande lente di ingrandimento su Lampedusa, sui suoi abitanti, e a latere ad illustrare quello che succede duranti i perdurati sbarchi di immigrati di cui noi tutti siamo a conoscenza.

Si racconta la vita, per quella che è, con le sue noie, le visite dal medico, il sugo al pomodoro e le pulizie di casa, il tempo brutto che impedisce ai pescatori di uscire in mare. All’interno di questa narrazione, si insinua poi il punto di rottura e il rumore di sottofondo non è più lo scroscio del mare, ma le registrazioni telefoniche delle marina italiana, quando fra pianti e urla di disperazione arrivano le richieste di aiuto.

Così, con la freddezza con cui si raccontano le altre vicende, si introduce uno spaccato di mondo disumano, dove la disperazione fa da padrona e dove ci sono cadaveri, ustioni da benzina, annegamenti e  recuperi di corpi che galleggiano in mare. Uomini, donne, anziani, donne incinte, bambini. C’è l’intervista al responsabile del Pronto Soccorso di Lampedusa, con gli occhi dolci e tristi di chi ne ha viste troppe, ma di chi non scansa la  responsabilità di curare i vivi e sezionare i morti.

Voglio restare volutamente generica perché ognuno possa guardarlo, magari in un momento propizio, non tanto per  la sua trama o la regia, che poteva anche essere migliore, ma per riflettere sul senso dell’umanità, cosa di cui si fa gran berciare in questo Natale.

Io penso una cosa, che investire tutti i risparmi della propria vita per pagarsi un viaggio in cui sai esattamente che potresti morire, e salire su una barcaccia  per attraversare il mare e vedere se mai riuscirai ad arrivare dall’altra parte, con la tua famiglia, per sfuggire alla fame, alla guerra, alle persecuzioni e alla disperazione, è molto più vicino al vero senso della vita che tutto il resto. Perché tu in quel momento la tua vita sei disposto a metterla su piatto, tanto hai poco da perdere.

E questo non si può ignorare, non si può fingere che tutto questo non stia accadendo, non si può risolvere tutto con qualche accordo politico. Certo non si può fare nemmeno i buonisti e non ammettere che anche l’integrazione è di fatto un problema, enorme, soprattutto per un Paese come l’Italia, in cui tutto è lento e faticoso e molto spesso corrotto.

Però alla vita non si può rispondere che con la vita, e non so esattamente come questa cosa che sento forte possa poi diventare realtà concreta, ma credo davvero che con le nostre scelte possiamo riscoprirci ogni giorno più umani, non tanto nel senso letterale, ma come individui.

Forse dovremmo aprirci di più al mondo, abbandonando le facili tecnologie che sembrano connettere tutto e niente connettono, strofinarci gli occhi troppo appannati dal benessere, e avere il coraggio di guardare dove invece è più facile distogliere lo sguardo. Credo fermamente che il contatto umano, l’empatia con il prossimo restino ancora uno dei sacri pilastri delle necessità etiche dell’uomo, e anzi credo che se ci sarà qualcosa che fermerà questa giostra impazzita di mondo confuso, sarà proprio questo.

Quindi che questo Natale vi possa portare tanto senso, senso di vita, senso di sentirci tutti, parte di un grande sistema umano che ci sta chiedendo delle riflessioni a cui non possiamo esimerci. Visto che non c’è mai tempo per farlo, prendiamoci questo momento per pensarci ora.

Spero che questa riflessione non risulti troppo confusa, ma continuavo a pensarci e avevo bisogno di dargli una forma tangibile.

Detto questo, ora torno ad essere l’alunna meno intelligente e con scarse probabilità di miglioramento della mia classe delle medie ed ebbra di gioia che da domani sono in ferie, con il sottofondo di Last Christmas degli Wham vi auguro tante buone cose!

Buoni propositi

Detti anche elenchi inutili

Superata la soglia dei trenta, stilare la lista dei buoni propositi per l’anno nuovo diventa un’attività che sconfina nel penoso. In primis perché è raro che si depenni anche solo una voce della suddetta lista, secondo perché quello che ci si propone di migliorare nella propria vita (mangiare sano, andare a letto presto, iscriversi in palestra, bere tanta acqua) aggiunge disagio a un quotidiano che è già di suo drammatico. Non è facile infatti iniziare a sentire i primi acciacchi, realizzare che non sono capelli biondissimi quelli che vedi, ma bianchi, o fare a patti con l’invecchiamento dei tuoi ovuli e con gli attacchi di cervicale. I buoni propositi in un contesto simile aumentano solo il tasso di frustrazione e quindi, in dignitosa antitesi con il sistema, io affronto l’inizio di ogni anno, con il mio solito e proverbiale lassismo. Anzi, tendo anche a cullarmi nella depressione, conscia del fatto che se si inizia l’anno al peggio delle possibilità non potrà che andare meglio.

Quest’anno però, a differenza dei precedenti, ho dedicato massima attenzione al libro che avrebbe dovuto aprire le danze a questo 2017, che secondo tutti gli oroscopi disponibili on line, dovrebbe essere per la Bilancia, un anno non male.  Stazionava sul comodino da tempo, ma ho sempre storto il naso all’idea di iniziarlo, perché non mi sentivo pronta a leggere il mio amico Fëdor senza la giusta predisposizione d’animo. Bene, terminate le feste e conclusa la bagarre natalizia con le sue atmosfere zuccherine e stucchevoli, ho inaugurato Memorie dal Sottosuolo. Per ora ho solo letto ventotto pagine, quindi non posso esprimermi molto in merito, ma posso però già confermare quella nota ed edificante sensazione di prossimità che mi pervade ogni qualvolta leggo un libro del buon Dostoevskij. Certo lui era un genio russo con l’epilessia, io sono solo una giovane donna che respira particolato e polveri fini a Milano, però questo fatto dei tormenti della coscienza ipertrofica, li capisco. Anche io nel mio piccolo tendo a farmi mille domande e crogiolarmi nei miei dolori provando una lieve forma di sadico godimento nel non risolverli. Ecco, dunque, pur non essendo ancora entrata nel merito del libro mi piace, e lo consiglio a tutti voi, lettori inesistenti, se avete come me un problema di coscienza ipertrofica. Magari se siete innamorati o felici o avete vinto al superenalotto, no, però se siete come me alla ricerca di diamanti preziosi con cui levigare gli animi affranti, salutate anche voi il 2017, con siffatto gioiellino.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: