1°Maggio

L’arte della hygge

Oggi era il primo maggio, ma io non me la sono sentita di festeggiare i lavoratori. Festeggiare i lavoratori quando il 70% dei giovani fra i 18 e i 24 un lavoro non ce l’ha e festeggiare tutti coloro che magari il lavoro lo odiano e non lo possono cambiare perché senno ci mettono un lustro a trovarne uno nuovo (io!io!io), mi è sembrato stridente come la cartavetrata al posto della carta igienica. Ho perso la fiducia nei confronti della politica italiana, e ricomincerò a fidarmi di lei, quando vedrò che qualcosa di tangibile verrà fatto per noi giovani, una generazione dal futuro distrutto sul cui presente si specula. Ho passato quindi una giornata sottotono a mangiare in maniera compulsiva, guardando serie tv su Netflix lobotomizzandomi in attesa che qualcosa di imprevisto succedesse, tipo che mi chiamasse qualche zio miliardario mai conosciuto per comunicarmi di essere l’unica erede dei suoi beni, o che improvvisamente il Regista venisse contattato da Steven Spielberg come assistente dando il via alla nostra nuova vita oltreoceano. Niente di questo è ovviamente successo, e complice anche una pioggia battente e un calo delle temperature che ve lo risparmio, ci siamo imbruttiti in casa, incapaci di lenire i nostri reciproci malumori. Solo il cane, che ivi allego in tutta la sua splendente bellezza, ha provato a distrarci disseminando fluidi canini per casa, con l’effetto di farci imprecare in lingue a noi sconosciute, stimolando il nostro apprendimento per le nuove culture.

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Mentre solerte pulivo armata di spazzettone e igienizzanti, pensavo a come vivono i danesi, fondatori della famosa filosofia hygge. Loro in una giornata di pioggia e festa, si sarebbero svegliati con il sorriso, avrebbero salutato il nuovo giorno con tazze di cioccolata calda nelle loro belle case di legno bianco wengé. I bambini, dei piccoli Thor biondi in camiciola tutto l’anno, si sarebbero buttati fra le braccia di mamma e papà a mangiare pan di zenzero spostandosi poi a giocare in silenzio fra di loro. Insieme alla famiglia il cane, uno stupendo golden retriver, sano e giovane, accucciato ai piedi del divano, su cui appoggiate con fare noncurante ci sarebbero state delle coperte all’uncinetto color crema. La giornata, passata ad impastare pane con i bambini, sarebbe proseguita nel pomeriggio: un bel bagno caldo per lei, e una lettura rilassante per lui, con candele profumate accese e dispensatori di oli essenziali. Forse tra un pisolino e l’altro dei bambini sarebbero anche riusciti a fare l’amore, concludendo poi la serata con una vellutata di piselli e semi di zucca, i bambini a letto, e loro due abbracciati a farsi le coccole prima di affrontare una nuova e stupenda giornata di lavoro.

La mia giornata invece è riassumibile in questi brevi ma incisivi passaggi.

  1. Risveglio traumatico alle sette per sveglia che giustamente pensa sia un lavorativo e squilla, la maledetta.
  2. Colazione con qualche fetta biscottata stantia.
  3. Divano, serie tv, lobi occipitali lobotomizzati, refresh isterico del Corriere.it
  4. Pranzo con pasta democratica, aglio olio e peperoncino. Fiatella orribile.
  5. Serie tv Netflix – tentativo di coccole mal riuscito con il Regista a causa di sindrome premestruale e nervosismo.
  6. Lavatrice-lavastoviglie, cena ordinata su Deliveroo con alto tasso di oli idrogenati.
  7. Dopo le 19:00, inizio della depressione comatosa causa rientro in ufficio.
  8. Ore 21:30 a letto con un libro e un’ammiccante bicchierino con 10 gocce di Lexotan da concedersi solo nelle occasioni speciali.

Oggi inoltre c’è stato anche un blackout elettrico del quartiere, e visto che la corrente non rientrava,  ho iniziato ad angosciarmi terribilmente per la potenziale gente bloccata in ascensore. Quindi la vengano a spiegare a me la filosofia hygge i danesi.

C’è di buono che ho iniziato a leggere “Le otto montagne” di Cognetti e lo amo già. Archiviamo questo primo maggio e speriamo per tutti, che il prossimo sia nettamente migliore!

Miopia

Quando il sogno non diventa realtà

Quando ero adolescente e iniziavo ad impattare con la realtà ero fermamente convinta che crescendo le cose sarebbero migliorate. Sarebbe migliorato il rapporto con me stessa e forse anche il mondo. Senza dubbio ero certa che avrei smesso di indossare gli occhiali a goccia che i miei mi avevano comprato per compensare l’orribile miopia che si era manifestata funesta ai miei dodici anni. Mi accorsi che qualcosa non andava con la mia vista, perché scambiavo tutti gli uomini che vedevo da lontano per mio Zio Felice, non importa se si trattasse di venditori di aspirapolvere, postini o vigili. Per semplificarmi la vita, ogni volta che qualcuno suonava al campanello dei miei, lo facevo entrare certa che fosse un volto conosciuto. Questo ovviamente non era considerato un bene dalla mia famiglia, che dopo aver ipotizzato un attaccamento eccessivo allo zio, mi portò dall’oculista, validando i dubbi che erano sorti in merito alla mia vista. Ne uscii, non potendo gran che scegliere fra le montature anni novanta dell’ottico del paese, con un paio di occhiali alla Steve di Otto sotto un Tetto: enormi, improbabili, assolutamente orribili.

Li odiavo a tal punto da toglierli per la maggior parte del tempo, continuando quindi a salutare gente che non conoscevo per strada, cosa che in fondo mi piaceva, perché mi aiutava a superare l’invalidante timidezza da cui ero affetta.

Jaleel White

In quella fase, in cui facevo a patti con gli sbalzi d’umore adolescenziali, con la goffaggine e l’assoluta inadeguatezza del mio essere, guardavo con speranza al futuro e mi immaginavo a trent’anni come una grande figa francese che avrebbe insegnato Letteratura in qualche Università nel mondo, con un paio di occhiali da vista alla moda, un marito filosofo, una casa di campagna in Provenza e tre bambini biondi, belli e sorridenti. Quell’adolescente impacciata e timida, con il seno piatto e la montatura d’occhiali improbabile, sognava il suo futuro disegnandone i contorni con speranza.

Ora che ho trent’anni (vado per i trentaquattro) e neanche una delle suddette condizioni si è avverata, guardo al futuro con meno ottimismo. A onor di cronaca una si: da sei anni divido infatti la difficoltà dell’esistenza con il Regista, mio amato compagno di vita, che pur non essendo filosofo, esercita una professione nell’ambito video-artistico cosa che fa di lui  a tutti gli effetti un umanista. Per il resto nulla è migliorato, continuo a sbattere la testa contro la mia incapacità di stare al mondo in modo efficiente e l’universo non mi sembra stia andando una direzione positiva per il proseguimento della vita. Ora che si sono messi a bisticciare anche Trump e il capo della Corea del Nord, gli scenari diventano sempre più apocalittici.

Per non cadere vittima della depressione di fronte al mio lavoro impiegatizio in un’orribile multinazionale, al salario risicato e alle mille difficoltà di vita che si stanno palesando sulla mia strada, fantastico sui miei sessant’anni prorogando alla seconda parte della mia vita la realizzazione di alcuni dei miei sogni, chiaramente ridimensionati all’età. Quindi mi immagino attraversare con facilità la menopausa, evitando l’osteoporosi e gli acciacchi, riuscendo forse a rientrare nel mondo della cultura grazie alla terza Università, magari madre di qualche giovane che immagino all’estero a perseguire i propri sogni, ancora compagna del Regista, che spero nel frattempo sia diventato, almeno lui, il nuovo Sorrentino.

Sognare non costa nulla, diceva qualche saggio di cui ora non ricordo il nome e che non ho voglia di cercare su Google, ma magari stasera,  nonostante la mia montatura di occhiali mi piaccia molto, proverò a toglierli, porterò il cane a fare il suo giretto e saluterò gente che non conosco, così per ricordare la mia tenerezza adolescenziale e perché no per farmi nuovi amici fra gli anziani che vivono nella mia zona, e che  a quanto pare sembrano gli unici socievoli nella bella Milano.

Il riso degli agnelli

Speculazioni sul Daimon

E anche questa Pasqua è andata. Sono estremamente lieta di archiviare coniglietti,  uova di cioccolato, e pure l’immagine del Berlusca abbracciato all’agnellino che ha capeggiato sulla pagina del Corriere.it per giorni e che mi ha inquietata oltremodo. Sarà che a lato c’era il trailer del nuovo remake di IT,  sarà che tutta quella levigatezza cutanea da filtro Photoshop su un 80enne fa un po’ necrologio, o forse l’impressione che l’agnellino si sentisse pure a suo agio, ma vi garantisco è stato l’incubo di Pasqua peggiore.  Gli altri non ve li sto neanche ad elencare, ma  sono felice di essere riuscita ad evitare con un incastro di finti impegni machiavellici il pranzo in Famiglia, che avrebbe previsto portate di cibo infinite alternate ai classici litigi epocali da nucleo famigliare disfunzionale, quale è il mio.

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Immagino che sia retaggio comune di molte famiglie, ma la mia è in grado di dare il peggio di sé stessa a Natale e Pasqua, o durante tutte le ricorrenze in cui è necessario metterci del buonsenso che nessuno pare in realtà aver voglia di dimostrare. Quindi se posso, se il mio diniego non si trasforma in dramma, spesso non mi paleso, pagando il dazio del diventare automaticamente la figlia degenere.

Come diceva Tolstoj: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”, e credo con un’assoluta certezza che si sia fatto questa opinione osservando i pranzi di famiglia, che sono uno spaccato socio-analitico ben più affidabile del paniere Istat.

Comunque il suddetto post voleva si essere dedicato al mio amico vegano Berlusca, ma anche in realtà al nuovo libro che sto leggendo, già  praticamente finito che è: “Il codice dell’anima” di James Hillman. Non è un romanzo, è un saggio-testo d’ impronta analitico-filosofica, scritto da uno degli analisti junghiani più famosi e anche controversi, quale era il buon Hillman. L’oggetto del testo si rifà al mito di Er di Platone, il quale afferma a grandi linee che quando veniamo al mondo, non siamo soli,  la nostra anima sceglie un “compagno” che i greci chiamavano daimon. Il daimon, che non è Doraemon, per quanto l’assonanza del nome getti luce interessanti sul cartone animato, è una sorta di spirito guida, un’immagine essenziale di noi stessi e della nostra più profonda vocazione. A supporto di questa tesi ci sono esempi di uomini straordinari, provenienti dal mondo della scienza, dello spettacolo, della politica, la cui vocazione sembrava davvero infusa da aspetti divini, tanto si manifestava con forza.

È un libro molto interessante, e al di là di alcuni aspetti, su cui si può dissentire o meno, c’è alla base di tutto una riflessione molto profonda sul nostro senso di uomini sulla terra, sulla direzione che le nostre vite prendono, che molto spesso è davvero lontana dalla nostra essenza più profonda e dalla nostra sensibilità. Secondo Hillman ci stiamo inoltrando in una società sempre più psicotica, in tutte le sue espressioni, perché si è perso questo contatto con il sé che invece è sempre stato un punto fondamentale nella vita dell’uomo prima che il consumismo arrivasse e ci convincesse a comprare come degli automi per sublimare i nostri conflitti.

Qui vi ho dato un’estrema sintesi dell’opera, ma per i più interessati a questo tema, ne consiglio la lettura, si legge molto bene, è scorrevole, Hillman usa un lessico molto semplice e se avrete una matita farete molte sottolineature. Ci sono moltissimi spunti di riflessione e una bibliografia molto estesa, per cui ci sono diversi riferimenti a molte opere che potrete approfondire. Qualora questo tema non vi dovesse interessare, ci sono sempre le avventure di Doraemon, una nobile alternativa nipponica ai turbamenti dell’anima!

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Maledetta Primavera

Che fretta c’era!

Ebbene si, la Primavera è arrivata. Già da qualche settimana devo dire, ma io sono abbastanza lenta a interiorizzare i cambiamenti del contesto che mi circonda, soprattutto climatico. Quindi passo sempre attraverso fasi progressive di rifiuto in cui continuo a mettere capi d’abbigliamento invernale, finché prostrata dall’evidente  gioia di cui il mondo si sazia di fronte ai fiori, agli uccellini e alle belle giornate di sole, capitolo anche io.

Non è mai una capitolazione indolore, io mal sopporto il caldo e qualsiasi fase mi avvicini all’estate lombarda mi getta nello sconforto, riportandomi ai dolorosi ricordi dell’estate 2015:  al colmo della disperazione da caldo, quando nemmeno il condizionatore riusciva a refrigerare il mio appartamento, mi coricavo la notte con le cariche del freezer dentro le lenzuola, pregando numi pagani per farmi addormentare.

Inoltre una bella giornata di sole con il cielo terso, che rende grazia persino a Milano, acuisce l’insofferenza per la mia vita da ufficio, che mi vede protagonista, come molti altri, di interminabili giornate seduta alla scrivania  intenta ad occuparmi di cose che non mi interessano e spesso mi mortificano, ma che sono l’unica soluzione per il procacciamento del vivere quotidiano. Quindi in questi giorni, non faccio altro che fare un refresh isterico della pagina Ilmeteo.it, per fare delle valutazioni ponderate su come sarà l’estate 2017. Se qualcuno che mi legge è meteorologo,  si faccia avanti e dica la sua.

Comunque, giusto per evitare che questo post diventi oggetto delle mie deliranti idee sulla vita primaverile, tornerò a bomba sul perché  dovreste leggere David Copperfield. Non mi soffermerò su tutti i motivi critico-letterari, di cui potrete leggere i solluccheri sui vari blog migliori del mio, ma su motivazioni più pragmatiche, ma altrettanto nobili.

  • La compagnia. David Copperfield è un libro di mille pagine, per cui tolto che siate Mandrake o leggiate una pagina ogni dieci, sarà un libro che vi terrà compagnia per un lasso di tempo variabile, ma sicuramente superiore a una settimana. I libri che mi fanno compagnia per un certo periodo, mi restano sempre più nel cuore di quelli che riesco a finire in qualche giorno e che mi lasciano sempre con l’amara sensazione di una botta e via. Leggere David Cooperfield è come avere una relazione, breve se vogliamo, ma si sperimentano tutte le fasi, entusiasmo, distacco, noia, ripresa dell’entusiasmo etc.
  • Il tempo. Essendo un romanzo di formazione, o come piace dire agli amici “teteschi”, Bildungsroman, David Cooperfield, narra la vita del simpatico David a partire dalla nascita sino ai suoi trent’anni. Quindi, tolto che siate dei mostri privi di cuore, vi affezionerete subito al ragazzino e tiferete per lui e starete male per le sue sventure, come se fosse un vostro amico, o un parente, o tutte e due messi insieme. Non solo, considerato il genio indiscusso di Dickens nella creazione dei personaggi, vi affezionerete a tutti, alla zia Betsey, al Signor Micawber a Peggoty e vi dispiacerete,  come ho fatto io, quando il libro sarà finito.
  • La modernità. Dickens mi fa rivedere le mie posizioni sugli scrittori russi. Voi direte, embé, quindi? Quindi è importante. Perché la modernità estrema (non solo di prosa, ma anche di prospettive) che ho potuto riscontrare leggendo questo libro, è sicuramente differente da quella di Dostoevskij, ma altrettanto grandiosa. Per altro pare che il buon Fedor fosse un lettore accanito di Dickens e che anzi David Cooperfield fosse il suo libro preferito (potrebbe essere una Chiarata questa, verificatela). Il libro è pervaso di etica, di storia, di umorismo, di disperazione e di felicità, infuse in maniera suberba.
  • Scene di addio/morte. Non so se questo sia un plus o meno, ma io ve lo dico lo stesso, Dickens è un drago nel descrivere le scene di addio e/o morte. Fanno venire i brividi, sono così intense che le devi rileggere duecento volte, per capire come fa.  Io che amo molto i momenti di tensione melodrammatica l’ho trovato incantevole.

Non andrò oltre, in primis perché superate le trenta righe, io stessa non leggerei un post così lungo, secondo perché dovete correre a comprare David Cooperfield. Possibilmente non su Amazon,  ma in qualche libreria che ha bisogno del vostro acquisto.

Se volete potete iniziare a leggerlo sulle note della Goggi, che con Maledetta Primavera ci sistema tutti, altro che global warming.

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Iconografia del feticcio

Come ti instagrammo il libro

In questi giorni ho ordito una riflessione puntuale sulla questione lettura –libri- lettori. L’ho fatto stimolata da un’amica che iscritta a diversi canali social sul tema mi riportava che al pari del cibo, anche per la lettura è sempre più di moda una sorta di esposizione mediatica del libro che spesso riduce l’oggetto al pari di un feticcio. Ci sono canali di persone che postano le loro letture, libri, librerie, e via dicendo in un escalation di contenuti molto liquidi e veloci, che secondo me si mal prestano all’argomento che trattano.

Probabilmente si mal prestano anche se pensiamo al cibo, che da strumento per il nostro sostentamento e benessere è diventato una sorta di scelta blasé per rivendicare uno status, e forse per le vite delle persone stesse che da diversi anni sono diventate oggetto di piattaforme di comunicazione mal utilizzate.

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Io ho non ho una vita social, tranne che per un canale twitter semi abbandonato. Ho deciso, rispettando anche una mia forma di timidezza di fondo, che la mia vita era già abbastanza complicata da gestire sull’off-line e questa trasposizione non avrebbe giovato al mio benessere. Quindi parlo forse senza cognizione di causa, però sento di non poter ritenere affidabile una persona che legge Guerra e Pace in due giorni, o posta sul suo canale sette libri a settimana recensendoli come fossero il bollettino meteo.

Credo non sia possibile. Sono dell’idea che la lettura vada oltre l’esercizio del leggere in sé, ma sia un processo di assimilazione profondo, astrazione fantastica,  riflessione anche e che ci sia un tempo necessario perché la storia decanti e entri dentro di noi. Il tempo poi è variabile ovviamente, a volte la brama della lettura ci rapisce tanto che finiamo per consumare i libri più che leggerli, e anche a me succede, ma non sono certa possa andare sempre così.

Se va sempre così credo diventi un mero esercizio di stile, un volteggio narcisistico, una masturbazione volta ad ottenere pacche sulle spalle e riconoscimenti pubblici. Con questo non voglio negare la parte narcisistica che coinvolge tutti (me compresa). L’accumulo di libri, il creare la propria libreria, il condividerla, essere letti e apprezzati è una cosa gratificante e bella, ma questo non sostituisce la vera esperienza del leggere che ognuno di noi vive nella bellezza della solitudine.

Comunque ovviamente ho fatto tutto questo panegirico pesantissimo, per giustificare il fatto che ho appena finito David Copperfield. Questo mi rende una lettrice non all’altezza dei tempi, ci ho messo quasi due mesi a terminarlo, mesi nei quali però ho accumulato una serie di attività meno piacevoli e più orientate al disagio, come lavorare in modo matto e disperato, deprimermi, farmi venire attacchi d’ansia, comprare un’aspirapolvere nuova, curare il cane. A breve vi illuminerò sul perché tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero leggere il buon David Copperfield.

Venerdì 17

Eziologia della sfortuna

Nonostante mi sia sempre reputata una persona ragionevole, saldamente ancorata ai principi dell’illuminismo e militante per la “lotta al sonno della ragione”, la vecchiaia galoppante mi sta facendo rivedere alcune delle certezze che in gioventù non avrei mai contestato.

Quando avevo vent’anni mi facevo beffe della superstizione, rompevo specchi quasi a voler sfidare la sorte, passavo sotto le scale e il sale caduto in tavola  per me non era altro che del banale cloruro di sodio.

Ebbene, superati i trenta, le mie razionali certezze hanno cominciato a vacillare, in parte a causa di una serie sfortunati eventi accaduti in circostanze precise. Tipo il da poco passato venerdì 17 marzo 2017, che si è configurato come una delle giornate peggiori dell’ultimo periodo. Non so se questo sia da attribuire al fatto che fosse venerdì 17, o al fatto che ci fosse il 17 anche nell’anno, ma tant’è che il dramma si è consumato.

Avevo avuto delle piccole avvisaglie in mattinata che con arroganza ho impunemente ignorato, e che hanno avuto un roboante climax nel primo pomeriggio, quando in ufficio si è scatenato l’orrore: una mail fintamente gentile mi comunicava che avrei dovuto rifare il lavoro di tutta una settimana entro sera. Ai primi minuti di incredulità e terrore sono susseguiti dei rush di adrenalina e disperazione che mi hanno regalato un’espressione (nonché un sottotono), molto simile a quella di Lou Ferrigno nell’Incredibile Hulk.

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Sopravvissuta (non so come) ad un conseguirsi di extrasistoli – telefonate concitate – proteste – disperazione – telefonate concitate – extrasistoli – isteria – morte – risoluzione del problema, ho pensato che potevo stare tranquilla, il mio tributo al nefasto venerdì era stato pagato e mi sono sentita quasi fiduciosa che la cosa potesse concludersi così.

Giammai c’era stato nella storia dell’umanità, un giudizio più affrettato. Una volta giunta a casa ho dovuto affrontare un’apocalisse di deiezioni canine sparse con metodo sul pavimento (cane anziano e incontinente, ma molto simpatico), e non ultimo una plafoniera in vetro si è staccata dal soffitto schiantatosi a terra un minuto dopo la mia uscita dalla doccia. Ho rischiato il classico incidente domestico potenzialmente fatale. Quelli che negli anni novanta, quando io ero piccina, ci avevano costruito un programma  televisivo in onda su Raitre il sabato sera, l’orribile e allo stesso tempo affascinante:”Ultimo Minuto”, un susseguirsi di macabri incidenti accaduti a persone che non sempre sopravvivevano, e che credo abbiano turbato il mio subconscio più di Twin Peaks.

La fatalità e concentrazione di questi sfortunati eventi mi hanno costretta ad una riflessione più ponderata sulla superstizione e ho deciso di recuperare questo bellissimo libro pop-up, che mi regalò ai tempi un ex collega per scoprire tutti i gesti indispensabili scaccia-sfortuna, di cui a questo punto sento di avere un grande bisogno.

The guide for the Unlucky

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Una preparazione di questo tipo si rende indispensabile, per affrontare serenamente questa nuova fase della mia vita in cui se non mi asciugo i capelli la sera vengo colta da orribili attacchi di cervicale.

 

Settimana della moda

L’insostenibile inadeguatezza dell’essere

E anche questa settimana della moda ce la siamo levata dalla scatole. Sono felice che si sia tornati al regolare intasamento metropolitano, e soprattutto gioisco nel non vedere più valchirie minorenni dalla bellezza sfolgorante camminarmi accanto.

Il mio personale contributo all’ esploit modaiolo di questi giorni, che in parte esplicita anche il mio interessamento alla questione, è stato girare per Milano vestita con cappotto,  cappello e sciarpa neri, leggins blu oceano e stivaletti color carne. Un’improbabile accozzaglia di colori che neanche La Rettore nei suoi momenti di gloria ha eguagliato. Il dettaglio di stile che impreziosiva il tutto era dato da delle striature immonde sui leggins, trasparenti ed equivoche, generate dal rovesciamento involontario di sciroppo per la tosse a base di bava di lumaca. Non avendo cambi a portata di mano ho dovuto girare così un sabato pomeriggio, creando ilarità e sorrisi di compatimento negli sguardi che incrociavo.

Comunque se devo dirla tutta, iniziare l’anno con Memorie dal Sottosuolo non è risultato essere una scelta propiziatoria, almeno dal punto di vista prettamente fisico/salutistico. Dopo essere infatti sopravvissuta alla prima ondata di influenza, sono caduta preda anche dalla seconda, inaugurando ufficialmente il 2017 come uno degli anni in cui le mie difese immunitarie si sono dimostrate un completo fallimento. Certo ho manifestato una sintomatologia differente dalla precedente, per cui se prima avevo bronchite-raffreddore-febbre questa volta ho potuto sperimentare l’accoppiata faringite- tracheite- tosse che si è dimostrata certo più persistente e fastidiosa della precedente. Anche in questo caso, quando in preda alla disperazione e assolutamente convinta di aver contratto la meningite ho pensato che sarei morta, sono invece sopravvissuta, grazie anche alle parole di conforto del mio medico di base, che ha ben pensato di liquidare la mia pratica al telefono, comunicandomi che se avessi avuto la meningite non avrei avuto il tempo di discorrere così amabilmente con lui.

Nel frattempo niente di nuovo è accaduto alla mia vita, se non che sono giunta a pagina seicento di David Copperfield, e ammetto di esserne sempre più entusiasta. Charles Dickens è un genio. Parlo al presente perchè se ti permetti di scrivere libri del suo calibro, alla fine non muori mai.  Sono al punto in cui David è un giovanotto e si è anche un po’ ripreso, per fortuna, dalle sfighe della sua infanzia, ma credo si appresti a nuovi dolori e delusioni. Vi terrò aggiornati. Comunque sono così entusiasta che sono finita su Etsy cercando una copia  datata del libro da collezionare, ovviamente di non pregevole fattura, che mi consentisse di dedicargli un posto privilegiato nella mia libreria, e  sono incappata in questo negozio, the Locket Library,  che mi ha fatto letteralmente impazzire.

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Praticamente questa ragazza fa piccoli gioielli con le copertine dei libri, collane, bracciali, orecchini. Io non ho potuto esimermi dal comprare un ciondolo con la copertina di David, ovviamente. Sarò orgogliosa di indossarlo con i miei maglioni dai colori improbabili, slumacati dai vari rimedi popolari anti ipocondria di cui mi avvalgo.

ps: vi consiglio di non sottovalutate la bava di lumaca come sciroppo, è la svolta!

 

 

 

David Copperfield

No, non l’illusionista

Nonostante sia arrivata solo a pagina duecentodiciannove, io a David Copperfield mi sono già affezionata.  Provo un attaccamento al personaggio e al libro che preannunciano la fine “capolavoro”.

Sarà che trovo Dickens uno dei più grandi scrittori di sempre, sarà che alla fine per me i classici sono intramontabili, ma David Copperfield proprio mi piace.

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In primis perché a sto povero bambino, glie ne capitano di tutti i colori, che se io pensavo di aver avuto un’infanzia disagiata, lui batte tutti su tutti i fronti. E quindi mi fa un po’ riflettere su tutte le menate che il benessere ha portato con sé nella vita dell’uomo del ventesimo secolo.

Parentesi, l’altro giorno leggevo che la sculacciata è un gesto vietato per legge in più di sessanta paesi al mondo. Tipo che se ti beccano a dare una sculacciata a tuo figlio, puoi andare in galera. Questa cosa mi ha fatto un po’ sorridere, non tanto per la bontà della legge in sé; sono d’accordissimo che la violenza sui minori vada combattuta, denunciata, e punita in modo severissimo, però non sono convinta che una sculacciata data una tantum possa rientrare nel perimetro del perseguibile penalmente. Perché allora non riesco proprio ad accettare che noi non sculacciamo i nostri figli, ma compriamo i vestiti di Zara che vengono dall’Indonesia prodotti in fabbriche che si avvalgono del lavoro minorile, e che ce ne freghiamo se i bambini (sempre degli altri) muoiono sui barconi in mare a centinaia. È il paradosso dell’uomo bianco: se le cose succedono a lui apriti cielo, se succedono agli altri e gli fa comodo, non è poi così grave.

Comunque senza che ci addentriamo in territori in cui si potrebbe stare a discutere e questionare per ore, sono al punto in cui al buon Copperfield glie ne sono già successe di tutti i colori, ma proprio tutte, e anche se ti aspetti che non ci possano essere altre sfighe, realizzi poi che sei solo a pagina duecento e quindi devi essere pronta a tutto.

In realtà la mia abnegazione e prontezza d’animo valicano questo aspetto puramente letterario e tracimano nel fisico, nel senso che il libro conta circa mille pagine e come è possibile immaginare ha un peso specifico non indifferente, non facile da gestire in contesti pubblici, come la ben nota metropolitana, dove il rischio  di slogarmi un polso reggendolo in mano o di colpire qualcuno è alto.

Inoltre presentandomi in ufficio in sua compagnia sono stata schernita più volte da un manipolo di colleghi che mi hanno sbeffeggiata chiedendomi se trasportavo il Castiglioni- Mariotti o se stavo leggendo la Bibbia.

Io ho risposto alle loro provocazioni con un sorriso sardonico, un po’ da joker, per nulla rassicurante, quasi folle direi, che li ha disincentivati a proseguire.

Sento quindi che nella sofferenza sono più vicina al mio amico David che in questo momento non se la sta cavando molto bene, ma è così coraggioso che alla fine tutti fanno il tifo per lui.

David, sappi che quando la metro inchioda e io volo per terra con un chilo e mezzo di libro in mano, il mio pensiero  è con te!

La la land

E la vita ti sorride

Faccio una premessa: i musical non mi piacciono. O meglio la mia struttura mentale, magari un po’ rigidina, prevede che una persona o parli o canti. Ma mai le due cose insieme. Il multitasking, che subisco già nella mia vita lavorativa, non mi piace applicato al tempo libero. Quindi o si mangia o si guarda o un film, o ci si deprime o si ride, detesto gli stati confusi in cui non è ben chiara la direzione da prendere.

Comunque questa premessa mi serviva a introdurre il fatto che ho aggirato la mia avversione per i musical e lo scorso week end sono andata a vedere La la land. In parte sono stata anche condizionata da tutte quelle nomination agli Oscar, che creano un po’ l’effetto best seller, e fanno leva sulla tua dabbenaggine da utente medio a caccia di entertainment di qualità. In più il fatto che il regista del film Damien Chazelle, abbia più o meno la mia età (in realtà è più giovane, mannaggia) mi motivava a supportare la sua opera. Spazio ai giovani, mi sono detta!

Ebbene devo dire che è un film davvero carino. Delizioso in alcune parti (non tutte). Anche se la gente parla e canta contemporaneamente, anche se si parla d’ amore (è sempre difficile parlarne senza scadere nel patetico o nel tragico) e anche se di fondo non affronta temi controversi o di denuncia. Quelli insomma un po’ strappalacrime che fanno sempre vincere gli Oscar. Certo chiariamo, non griderei al capolavoro come tanti inneggiano, anzi in alcuni punti per dirla tutta è anche noiosetto.

Detto questo, non vi spoilero la trama che è meglio se ve lo vedete, però ecco vi garantisco che anche il più pessimista di voi, potrà uscirne con un sorriso. Io sono giorni che canticchio le canzoni della colonna sonora e ogni volta che salgo in metro mi aspetto che a un certo punto tutti si fermino e inizino a cantare e ballare.

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La magia del film è che, nonostante non finisca bene, cosa notevole se consideriamo che l’happy end a Hollywood è di dovere, ti mette di buonumore e vi posso garantire che ci sono poche cose che mi mettono di buon umore attualmente, a parte leggere, lamentarmi della vita e mangiare patatine fritte. Sono rari i casi in cui i film mi alleggeriscono, è molto più frequente che mi facciano piangere, mi sconvolgano o mi facciano riflettere. Ecco in questo caso La la land mi ha regalato un po’ di buonumore, che di questi tempi è merce rara.

Quindi o voi quattro lettori di questo blog sperduto, se vi capita, così per caso o per volontà, andate a vedere La la land. Poi magari non vi piace e mi insultate e mi chiedete di rimborsarvi i soldi del biglietto, cosa che sappiate non farò, però ecco sono sicura che dopo averlo fatto qualche motivetto della colonna sonora vi risuonerà nella capoccia e forse vi verrà voglia di pensare che nelle mille baggianate che scrivo su questo avevo ragione. Nel caso peggiore sarete comunque andati al cinema, che nel week end è sicuramente una scelta migliore del centro commerciale, o dell’Ikea.

In fondo, come diceva quello che poi tapino è morto nel film Il corvo, “Non può piovere per sempre”. A lui non è andata molto bene, e non sono sicura che a noi andrà meglio, però let’s try!

 

Turbolenze virali

O anche come sopravvivere a Bolzano

E alla fine dopo tutto questo parlare di emergenza influenza, è subentrata la ben nota legge di Murphy e quindi l’influenza me la sono presa io.

Badate bene, non un piccolo e leggero malanno caratterizzato da qualche linea di febbre e il sorriso felice per i giorni di assenza lavorativa, ma una specie di monsone di virus e batteri che mi hanno travolta come la corazzata Potemkin.

In sintesi ho avuto per giorni un febbrone tremendo, altissimo. Quando chiudevo gli occhi in preda al delirio febbrile mi sentivo come il bambino del Sesto Senso: vedevo la gente morta. Dopo tre giorni così, in bilico fra la vita e una dimensione parallela dove filosofeggiavo con gli Umpa Lumpa, sono tornata sul pianeta terra, quasi felice di essere invasa dalla brutalità della vita. Quindi ho accettato di buon grado i messaggi del capo che mi chiedeva quando sarei tornata in ufficio, o della collega che si preoccupava fintamente del mio benessere. Per un attimo mi sono sentita felice di vivere a Milano nel 2017 e lo spleen baudleriano che mi affligge ha lasciato spazio a un sano orgoglio patriottico per il mio corpo che è riuscito a debellare il nemico invasore. Ci sono stati dei morti sul campo di battaglia, e credo che il mio viso ci metterà mesi a tornare di un colore normale, ma posso dire di aver sconfitto il temibile virus Bolzano. Che poi vorrei capire perchè gli epidemiologi hanno chiamato così il virus dell’influenza quest’anno. Forse è un omaggio agli abitanti del Trentino Alto Adige, o forse volevano definire la tenacia del virus attribuendogli qualcosa della durezza tedesca senza sconfinare nel nazifascismo.

Comunque sono qui, ho ancora la capacità di scrivere, quindi tutto sommato nulla è perduto. Anzi, ho avuto anche modo di terminare Memorie dal Sottosuolo e mi appresto quindi a dirvi la mia. Ovviamente mi è piaciuto tantissimo, non avevo grossi dubbi al riguardo, Fedor è una pietra miliare, una specie di colosso con cui tutti prima o poi dobbiamo fare a patti. Noi lettori intendo, perché non credo che tutta l’umanità incappi in Fedor nella sua vita, cosa che a tutti gli effetti trovo sia un gran peccato. Dicevo comunque che il libro mi è molto piaciuto, l’ho trovato una sorta di summa filosofica dei temi che verranno poi affrontati nei suoi libri postumi. In alcuni passaggi è assolutamente geniale, in altri perturbante, il protagonista è fastidioso, una “persona cattiva”, come si definisce lui. Da qui si snoda la trama, che è molto scarna in realtà, la prima parte è un soliloquio del protagonista, che si rivolge a un ipotetico lettore fantasma, la seconda si costruisce attorno a un paio di avvenimenti iconici che hanno caratterizzato e l’influenzato la vita del protagonista stesso, un abitante del sottosuolo.

Lo consiglio come lettura, anzitutto non è troppo lungo, inoltre non ha tutti quei nomi russi delle opere classiche di Dovstoevskij che ti mandano ai pazzi, perchè al terzo Pietr Ivanovic o alla quarta Maria Fedorovna hai già perso di vista di chi si sta parlando. Quindi per chi volesse approcciarsi al magico mondo russo del simpatico e travagliato Federico, è un buon inizio!

Io ora che sono uscita dal mio sottosuolo batteriologico, mi dedicherò invece alla lettura di un’altra opera mostro della letteratura, ovvero David Copperfield.

Ho sempre amato le storie di Dickens, mi fanno sentire rassicurata, è una lettura che procede strutturata, che lenisce il turbamento perchè nonno Dickens è sempre accanto a te. Quindi dopo tutto questo inizio d’anno turbolento era giusto spalmare un po’ di balsamo british alle mie ferite russe. Se qualcuno di voi, o lettori, l’ha letto, si faccia avanti e non lesini nei commenti!

Anche voi, lettori cinesi, che so che ci siete, fatevi avanti, senza vergogne. (si ho scoperto di avere una pletora di visitatori cinesi, che probabilmente arrivano sul mio blog scrivendo turpi oscenità su google. Misschorri sarà senz’altro qualche parte anatomica femminile e/o animale!).

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