Apocalypse Draghi

Sapere di non sapere e voler per questo sapere

Vorrei fortemente commentare con l’astio che sento fluire forte dentro di me (come la forza per Obi Wan Kenobi ma più simile al suo lato oscuro) il vergognoso teatrino politico accaduto giusto ieri che ha ci ha condotti verso il crollo del governo n.3248348, ma non lo farò.

Non lo farò perché sto ancora cercando di elaborare il tutto. Sono bloccata alla fase della negazione, spero che un giorno, come Cenerentola, ci sveglieremo tutti da questo brutto incubo e che finalmente potremmo confrontarci con una classe politica migliore, una classe che sappia presidiare il ruolo con la responsabilità, la lungimiranza e l’apertura al futuro che le sfide globali ci impongono.

Per ora non è così, i nostri politici, come il cambiamento climatico, ogni anno rompono i record dell’anno precedente, e ci lasciano un po’ increduli e spaventati a fare i conti con un futuro incerto e pieno di incognite.

Per la verità il 2022 ci sta dando grandi soddisfazioni da questo punto di vista, fra guerre, siccità, cavallette, caldo record, ghiacciai che si disfano, ondate di Covid e crisi di governo, credo che ognuno di noi abbia le bisacce piene di pensieri.

Io per la prima volta, invece di farmi prendere dal panico come mio solito e diventare disfattista (è l’Apocalisse, ci estingueremo e sarà giusto così) sto cercando di guardare al fenomeno da una prospettiva più ampia. Ho capito che l’ansia si genera anche dall’ignoranza in cui sono immersa e in cui sono stata cresciuta rispetto ad alcuni temi e che voglio assolutamente colmare.

Riflettevo qualche giorno fa che ho quasi quarant’anni e ignoro gran parte dei flussi/procedure che mi consentono di fare la vita che faccio. Mi sono resa conto che non so da dove viene l’energia di cui dispongo, in che percentuali è prodotta da combustibili fossili, da gas, da energie rinnovabili, da centrali idroelettriche, non so quanto pesano in termini di kilowatt le azioni che compio giornalmente, non so fisicamente come avviene l’erogazione dell’energia.

Lo stesso vale per l’acqua e gestione dei rifiuti. So che apro il rubinetto e sono abituata al fatto che esca dell’acqua, ma non so da dove viene quest’acqua, so che c’è un acquedotto, ma da dove pesca l’acquedotto? Dai fiume, dalle falde acquifere?  Che percorsi attraversa prima di arrivare al mio condominio e al mio rubinetto? Quanta acqua si disperde? Dove finisce l’acqua degli scarichi? Viene depurata e scaricata dove?

I rifiuti che produco e che cerco di differenziare, dove finiscono? Vengono bruciati, o riciclati per davvero? In che percentuale? Quali sono quelli più impattanti dal punto di vista ambientale e quali meno? Su quali aspetti dovrei cercare di lavorare come individuo per ridurre il mio impatto globale?

Ho mille domande di questo tipo che fanno capolino nel mio universo personale e che mi stupisco anche non mi sia posta prima, anche se sono perfettamente conscia del perché questo sia avvenuto.

In parte credo derivi da una volontà politica di tenere il cittadino il più possibile all’oscuro dei processi di gestione della “cosa pubblica” (ma anche privata), in modo da ridurre potenzialmente la critica all’operato e alla gestione, in parte anche dal malcostume che abbiamo, per cui se paghiamo per dei servizi (energia/acqua/rifiuti etc) non ci interessano i processi che li sostengono, ma solo che funzionino o che ci vengano fatti pagare di meno.

È importantissimo invece che queste cose vengano insegnate il prima possibile ai cittadini, ma anche ai bambini nelle scuole, perché l’unica carta che possiamo giocarci per riuscire ad immaginare un futuro non completamente apocalittico è conoscere i processi e spalancare le porte della consapevolezza e della scelta.

Se io conosco, conosco i flussi per cui servizi/oggetti arrivano a me, posso scegliere.

Se so che la fettina di pollo al supermercato è lì perché un tenero polletto è stato ipernutrito in una gabbia 20*20, non hai mai avuto l’opportunità di vedere il sole, e dopo 90 giorni di crescita a mangimi è stato ucciso per finire nel mio piatto, posso decidere di non mangiarlo. Oppure posso anche fregarmene del benessere animale, mangiarlo, ma essere attento e consapevole su altri temi.

Insomma c’è spazio per tutti, per la sensibilità e per gli interessi di ognuno di noi. Credo che però l’unico strumento per affrontare l’incerto futuro che ci attende sia la cultura, non intesa ovviamente in modo prettamente accademico, ma come interesse/coinvolgimento conoscenza del mondo che viviamo tutti i giorni.

Liberiamoci dall’ignoranza, e forse, un giorno ricorderemo Salvini e la Meloni come le verruche che si prendevano ai corsi di nuoto, fastidiose, recidive, ma anche estirpabili.

La bellezza ti fa triste

Anche i capelli bianchi in realtà

Uno degli aspetti che hanno inciso sulla mia decisione di abbandonare una ridente carriera in una GMB (Grande Multinazionale Brutta) per un futuro essenzialmente ignoto, è stata un’avvilente nausea che nel tempo avevo sviluppato per i temi che quotidianamente mi trovavo ad affrontare.

Come dico ai sempre colloqui quando mi viene chiesto di definire la mia posizione lavorativa, io sono, (lavorativamente parlando of course), una professionista della cosmetica, cioè una (poco lungimirante) che dal primo giorno ha sempre e solo lavorato per grandi aziende che producono e distribuiscono cosmetici, quindi creme viso, trucchi, parrucchi e via dicendo.

All’inizio, quando giovane e fresca di laurea cercavo la via più veloce per rendermi autonoma economicamente e ho iniziato uno stage in una prestigiosa azienda del settore, mi sembrava tutto un grande parco dei divertimenti. Potevo finalmente conoscere i segreti di un mondo molto al femminile, provare trucchi, testare nuove creme, accedere al dietro le quinte di uno dei settori industriali più floridi e interessanti (dal punto di vista tematico perlomeno) per una giovane donna.

Passata l’ubriacatura del primo momento però, ho iniziato a notare come lo stare immersa tutto il giorno in questa rutilante fiera della vanità, stesse amplificando in me alcune questioni in un modo abbastanza inquietante.

Ero sempre ossessionata da come apparivo, e da come appariva la mia pelle, passavo le giornate a spalmarmi creme e cremine, a guardarmi allo specchio in cerca di approvazione. Progressivamente pensieri che prima mi avevano sfiorato parzialmente avevano iniziato a diventare non sono primari ma anche onnipresenti. E, ovviamente, non mi facevano stare bene.

Erano però molto funzionali al sistema: l’essere target del prodotto che vendevo mi rendeva la migliore consumatrice di sempre, quella che in gergo chiamavamo top client, ricorsiva, altospendente, performativa, vittima consapevole del messaggio che predicavo.

Vivevo (e vivo in realtà) i segni inevitabili di un sano invecchiare, (i primi capelli bianchi e le piccole rughe) come dei veri e propri drammi, accompagnati anche da un insano senso di colpa che mi faceva pensare che non avevo fatto abbastanza e che potevo fare di più: potevo comprare creme più costose, prendere più vitamine, espormi meno al sole, fare più sport.

Avevo introiettato, come tutti, il mito distruttivo della bellezza e dell’ossessiva cura del sé, quello che abbastanza comunemente si vede nei volti devastati dalla chirurgia estetica, o che viviamo quotidianamente nelle nostre vite sentendoci in colpa se non riusciamo ad avere una forma o un peso “ideale”, se non dedichiamo abbastanza tempo allo sport o abbiamo un’alimentazione sregolata.

Come se in fondo l’unico modo per prendersi cura di sé, sia quello di occuparci del nostro corpo, quando invece il concetto di cura comprende un’attenzione e un allineamento profondo con il proprio sé, un ascolto quotidiano che si affina nel tempo e che ci dovrebbe aiutare a riscoprire la nostra unica singolarità. Una riscoperta che probabilmente metterebbe in discussione molti aspetti del nostro stile di vita e che nuocerebbe agli imperativi del capitalismo che ci vuole instancabili lavoratori, bulimici consumatori e inermi pensatori.

Mosaici tristi de li tempi nostri

Cibo, balletti e scrolling infiniti

Ho letto da qualche parte che Stephen King, durante un’intervista, all’annosa domanda, “Da dove ti viene l’ispirazione per i tuoi libri?”, rispose per estrema sintesi che gran parte delle sue idee rispondevano ad una semplice interrogazione che si faceva prima di iniziare a scriverne uno, ovvero “Nella realtà cosa succederebbe se…” e da lì provava ad immaginare scenari in cui elementi in forte contrasto si fondevano, ad esempio cosa succederebbe se un San Bernardo diventasse cattivo, se un clown uccidesse i bambini, se un uomo e la sua famiglia si trovassero in un hotel isolato in montagna e cosi via.

La domanda alla base dei suoi plot narrativi sembrava dunque apparentemente semplice, ma in realtà apriva a molteplici scenari di sviluppo narrativo e più in generale di ragionamento.

Ieri seguendo questa scia mi sono interrogata similmente riguardo a un tema su cui sto riflettendo parecchio nell’ultimo periodo e ho pensato “Cosa succederebbe se alieno sbarcasse sulla terra e per capire meglio la civiltà umana guardasse i contenuti pubblicati su instagram/tik toc? Che idea si farebbe?”.

Dopo aver rimuginato su questa prospettiva ho fatto un elenco delle macro-evidenze non più trascurabili, materiale utile all’ET di turno per trovare un senso a ciò che senso (apparentemente) non ha.

Iniziamo con:

  • fastidiosa propensione ad eseguire balletti in tutte le occasioni: i reel, come diceva dei toscani Stanis La Rochelle, hanno rovinato questo paese. Non c’è marito, fidanzata, famiglia, bambino e animale domestico che non venga obbligato ad ancheggiare al ritmo della hit dell’estate muovendo i pugni in una perenne e ripetitiva danza;
  • massiccia presenza di individui affetti da narcisismo e sindrome del plagio: diffusa è la convinzione che ognuno degli abitanti dei social network abbia qualcosa di interessante e/o unico da comunicare e in virtù di questo assunto combattere il plagio e riguardarsi dai colleghi malelingue è la loro missione di vita;
  • ossessione per il cibo e in particolar modo per le proteine e il mondo fit: il quantitativo di ricette presenti sui social network è assolutamente fuori concorso, l’ossessione per il cibo cucinato, ma soprattutto presentato bene, non ha eguali. In più l’odio per i carboidrati e la predilezione per budini e yogurt proteici potrebbero far pensare a qualche sindrome mondiale da deficit proteico, e invece come sempre è solo marketing;
  •  la grande bellezza del non invecchiare mai: maschere, creme, integratori e trattamenti, per una donna (ma anche per un uomo) essere belli è importante, sempre e in ogni luogo. A dare un extra boost di bellezza ci pensano i filtri, l’imperativo è esserci, agli aperitivi, ai concerti, agli eventi, ovunque valga la pena fotografare un sanpietrino al tramonto con l’hashtag #emozioneunica.
  • gli hater, anche detto l’odio abbassato al livello dei barboncini (è un adattamento di una citazione di Celine che dice “L’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini”). Da quando ci siamo messi in testa che la nostra opinione, in quanto semplicemente nostra, sia necessariamente importante per le sorti del mondo, l’odio da tastiera è diventato protagonista. Insulti gratuiti, diffamazioni, bodyshaming, l’importante è colpire, perché anche con l’odio è meglio essere massimamente ambiziosi.

Terminiamo con:

  • quelli che osservano, sorridono, si indignano e non ammettono che in fondo questo intrattenimento gratuito riempie anche il loro tempo libero, come me medesima che sto qui a scrivere i simposi a Milano, con temperature sub sahariane, sudando e soffrendo come un Giacomo Leopardi, mentre vorrei solo farmi una maschera e ingozzarmi di budini proteici con zero zuccheri e poche calorie.

ps: i barboncini sono dei cani meravigliosi e non so perché Celine ce l’avesse con loro, a titolo di risarcimento gli ho dedicato l’immagine di chiusura di questo post in cui invero si vede la loro nobile espressione che tende all’infinito, sperando  così che la comunità dei Barboncini Uniti non si offenda.

Recovery letterari

Gli ammolli che fanno bene all’anima

Quando ho comunicato ai miei amici e familiari che mi ero licenziata senza avere un progetto preciso per il futuro, le reazioni sono state fra le più disparate. C’è chi mi ha supportato, chi meno, chi probabilmente mi ha giudicato una pazza, chi semplicemente ha ritenuto di non dovere esprimersi in un modo o nell’altro. La domanda però che mi è stata rivolta più spesso è stata: “E adesso cosa farai tutto il giorno?”.

Questo horror vacui collettivo proiettato sulle mie giornate, mi ha fatto molto riflettere su come siamo arrivati a vivere e ancora più a concepire il tempo a nostra disposizione, non come dimensione in cui è lecito che si possa dare semplicemente spazio all’accadere, ma come una specie di orrifico buco nero da riempire di cose fare. Inizialmente io stessa mi ero preparata un puntuale retroplanning di cose che avrei fatto, manuali che avrei letto, master che avrei frequentato, fiere a cui sarei andata e attività che sentivo giusto avrei dovuto compiere a giustificazione della decisione che avevo preso.

Poi mi sono fermata a riflettere e ho pensato che l’unica persona a cui dovevo rispondere di questa scelta ero io e solo io, sia in termini di rischi che di opportunità e che quindi mi sarei presa tutto il tempo necessario per riposarmi, riprendermi e lasciare venire a galla tutto il sommerso e il naufragato degli ultimi anni.

L’unico progetto in cui mi sarei imbarcata, almeno nell’immediato era quello di dedicarmi a un mio personalissimo recovery, e nel pensarlo mi sono ispirata al grande protagonista del romanzo dell’ottocento: il bagno, la pratica più benefica di tutte per risolvere tisi, isteria, depressione, stanchezza, e finanche il mal d’amore.

L’acqua ha il magico potere della taumaturgia: lava, avvolge, cura e sostiene. C’è un bellissimo cartone animato, che consiglierei a tutti di vedere, La città incantata di Hayao Miyazaki, dove c’è la rappresentazione di uno dei luoghi immaginari più poetici e straordinari di sempre, ovvero le terme degli spiriti. Lì vi si recano gli spiriti che hanno bisogno di cure e che grazie a bagni benefici e acque ristoratrici si riconnettono a sé stessi guarendo dalle loro malattie.

Io mi sentivo esattamente così: spiritualmente vampirizzata e fradicia di angoscia, insomma ‘na fetenzia.

Forte però della letteratura in materia e seguendo le orme di Hans Castorp nel sanatorio della Montagna Incantata, ho deciso quindi che anche io avrei messo a bagno il mio corpo e il mio spirito lasciando che acque e sali facessero il loro lavoro.

Ogni settimana da gennaio fino a poco tempo fa, mi sono dedicata un bagno a tema letterario, con un podcast, un libro o della musica che corroborassero questo disorganizzato percorso di guarigione di cui sentivo avere bisogno.

All’inizio non nego che mi è sembrata tutta una pantomima, ma piano piano, vuoi per la regolarità, vuoi per la cieca convinzione che nutrivo in questo mio piano balzano, ho iniziato a sentirmi meno come la bambina di The Ring e ho iniziato a riflettere sulla potenza salvifica dei gesti riparatori che compiamo ogni giorno per sostenere le fatiche della vita, gesti assolutamente intimi e personali che ci riconnettono a noi stessi.

Mi piacerebbe conoscere i vostri, per cui se vi va, condivideteli!

The Great Resignation

ovvero le dimissioni dal punto di vista di chi le ha date

Ci sono voluti due anni di pandemia, di cui almeno sei mesi in lockdown, e un principio di esaurimento nervoso per riuscire a prendere la sofferta decisione che da troppo tempo sostava in me, come un tozzo di pane secco in gola, ovvero quello di mandare all’aria una lunga carriera in un’enorme multinazionale che se da un lato negli anni mi aveva regalato ricchi sostentamenti, d’altra parte mi aveva lentamente corroso e reso così infelice e senza speranza da trovarmi ad un certo punto preda della disperazione più nera.

Mi svegliavo la mattina e mi addormentavo la sera con una nausea perenne, che nessun farmaco riusciva a tamponare, soffrivo di febbricole che duravano settimane, le poche ore di tempo libero e l’intero week end li passavo sul divano in pigiama, a farmi scorpacciate di serie tv e film con un’espressione vagamente vacua e senz’altro poco rassicurante. Sembravo a tutti gli effetti un’eroina ottocentesca affetta da consunzione con una spiccata tendenza all’oblomovismo.

Così con l’ultimo atto di forza che mi restava, una domenica sera di qualche mese fa mi sono connessa al sito dell’INPS e ho inviato le mie dimissioni, attuando a tutti gli effetti l’atto più impulsivo e scellerato della mia intera vita.

Ho mandato a gambe all’aria il tavolo su cui ero seduta da anni, senza avere la più pallida idea di cosa in realtà comportasse davvero quel gesto e che tipo di implicazione avrebbe avuto per la mia vita. Apparentemente avevo solo lasciato un lavoro, nella pratica mi ero assunta la responsabilità della mia infelicità, avevo deciso di ascoltare per una volta la mia voce interiore sottraendomi alle aspettative di cui mi sono sempre caricata, prima della mia famiglia e poi del mio compagno. Un gesto che per me ha rappresentato prima di tutto il diritto di ripensare la mia identità, che da tempo si identificava completamente nel mio ruolo lavorativo.

Di questo tema ultimamente se ne sta parlando moltissimo, sembra che dopo questi due ultimi anni folli di pandemia, prima negli Stati Uniti e ora anche in Europa si stia assistendo all’aumento del numero di dimissioni.

È un fenomeno che meriterebbe molta attenzione perché credo che più di altro identifichi il termometro dell’aumento di consapevolezza generale. I numeri sono ancora piccoli, è vero, ma è come se sempre più persone stessero cercando di riappropriarsi di un quotidiano che esprima un senso e che possa offrire un bilanciamento reale fra vita professionale e privata.

Io vivo a Milano dove c’è una devastante cultura lavorativa, gli orari e la pressione sono estremi e completamente avvallati dal sistema, per cui se tenti goffamente di sottrarti, le conseguenze sono tendenzialmente peggiori di quelle che si affrontano se ci si adatta alle richieste aziendali e si mantiene un profilo basso e funzionale alla propria sopravvivenza lavorativa.

La merce di scambio è un discreto benessere, che nel mio caso nel tempo si era svuotato di valore: acquistavo compulsivamente su Amazon qualsiasi cosa, pur di lenire quel sentimento di vuoto cosmico che mi opprimeva l’anima, riempiendo la mia vita di oggetti che non hanno fatto altro che aumentare l’entropia e il disordine interiore che sentivo.

C’è un romanzo breve/racconto lungo di Melville, Benito Cereno, una piccola storia di mare che lessi moltissimi anni fa di cui mi è rimasta impressa questa frase: “Negli eserciti come nelle città e nelle famiglie, la sofferenza provoca il disordine”.

Per me il disordine era diventato opprimente, fosco e oscuro, una specie di nube nera che mi impediva non solo di pensare al futuro, ma anche di vedere il presente e me stessa con lucidità.

Mollare sembrava al momento l’unica scelta possibile, quella più dura e più ricca di incognite, ma anche quella simbolicamente più forte, accettare che nonostante pensassi il contrario, sopportare ancora non era possibile.

Non ce né coviddì

Tempi duri e maledettamente scomodi

C’è voluta una pandemia mondiale, due chili in più sul girovita, mesi di reclusione dagli umori incerti e un accumulo di noia mortale per farmi decidere a scrivere di nuovo.

Qualcuno potrebbe pensare che evidentemente la scrittura per me non è una pratica attrattiva, ma in realtà è l’esatto contrario. Mi sento investita di un’enorme responsabilità quando scrivo e quindi se non si verificano tutte le condizioni imprescindibili perché ciò accada (quindi quasi mai) non lo faccio. Da lì a far passare un anno e mezzo dal mio ultimo post forse è un tantino esagerato, anche perché facilmente si possono creare delle aspettative sulla movimentata vita che posso aver condotto negli ultimi 365 giorni. Mi sarebbe infatti piaciuto moltissimo tornare e raccontare le mie esaltanti peripezie, ma in realtà potete immaginarmi esattamente al punto dell’anno scorso: con un lavoro che non amo nella bella Milano, e come tutti voi a fare i conti con questa pandemia, di cui, spero conveniate, avremmo tutti fatto volentieri a meno.

Io in primis, visto che oltre all’evidente dispendio di vita che questo virus ci ha imposto (non che si tratti di averci necessariamente sottratto di tempo di qualità) ho sviluppato avversione profonda per una nutrita folla di individui: detesto tutto e tutti, giornalisti, politici, governatori e virologi. Non sopporto i miei vicini che non fanno altro che litigare tutto il giorno, non sopporto me stessa e il mio essermi trasformata nella versione femminile di Oblomov, stesa per la maggior parte del tempo sul divano, vestita 24h al giorno con delle tute improbabili, chiamate anche comfy, (nell’ultimo disperato tentativo di dare loro una dignità), mentre mi abbuffo di cibo industriale che appaga la mia noia e si adagia morbido e voluttuoso sui miei fianchi morbidini.

Quindi per quanto io voglia cercare di trovare qualche aspetto positivo nella situazione in cui mi trovo, ci troviamo, non ci riesco. Alla fine di questa pandemia probabilmente i miei muscoli saranno completamente atrofizzati, e la soddisfazione per aver fatto germogliare i diciotto semi di avocado che ho messo a bagno non sarà sufficiente a restituirmi un sistema cardio muscolare efficiente.

Anche perché nonostante sia tentata, non riesco a credere alla retorica un po’ buonista che questo virus abbia messo alla luce le fragilità del sistema in cui viviamo e che quando tutto sarà finito, saremo delle persone diverse, e il mondo sarà un luogo migliore dove si innescheranno dei cambiamenti virtuosi. Io credo semplicemente che quando tutto questo sarà finito tornerà esattamente tutto come prima, con un sottofondo di incattivimento generale che questi anni così difficili avranno depositato nei nostri animi.

Magari mi sbaglio, ma dalla mia nuova Postazione della Saggezza (il divano), stesa come una matrona romana sul triclinio mentre spilucco la cena di McDonald, sento che non me la sento di essere troppo ottimista.

E’ un lusso che non mi posso permettere perché in caso di aspettative disattese mi troverei  come Britney Spear nella sua fase difficile: fuori controllo, con la testa rasata, un ombrello come amico e la voglia di spaccare tutto.

Lezioni di ornitologia

Se anche voi siete degli appassionati cultori della cronaca del belpaese come me, non vi sarà sfuggito qualche giorno fa la notizia dell’attacco di Salvini da parte di un gabbiano romano. Il nostro aitante Ministro dell’Interno stava infatti coraggiosamente salendo sul tetto del Viminale durante una diretta Facebook (che prodezze amici, che prodezze!) quando arrivato sulla cima massima del sacro edificio, un grosso e temibile gabbiano, probabilmente sinistroide, l’ha accerchiato dimostrandogli tutto il suo dissenso a suon di garriti e stridii.

Il video a supporto di questo bizzarro incontro mi ha creato un vero scoppio di ilarità: quando sono triste o arrabbiata, il caldo mi attanaglia e mi fanno male i piedi (come stasera), o quando penso che non so come andranno a finire le cose in questo paese, o a che deriva sociale e di costumi mi toccherà assistere, penso che in fondo c’è una sorta di legge dell’equilibrio nel cosmo, a cui tutti volenti o nolenti siamo soggetti, e che forse non prevede un contrappasso, nel senso più puntuale del termine, ma una sorta di bilanciamento karmico, per cui anche un gabbiano può molto in termini di dissenso sociale.

Trovo anzi che i pennuti che vivono nelle città, insieme ai ratti e agli scarafaggi, siano in generale un grande esempio di resistenza sociale e genetica: nonostante i tentativi di disinfestazione protratti ad opera dell’uomo, resistono e dilagano nelle case, cibandosi dei rifiuti che produciamo e molto e spesso e volentieri propagando orribili malattie, che come la peste nel 300’ (anche se c’è una teoria degli ultimi anni per cui sembra che non siano stati i ratti a veicolarla, ma i pidocchi umani), hanno rischiato di estinguerci. Quindi in fondo, anche Salvini avrebbe dovuto riflettere, e non ignorare l’ira del gabbiano che, forse più di un “mostro pterodattilo”, come da lui definito, rappresenta una sorta di grande feedback cosmico del suo operato.

Io, che sono sempre alla ricerca di segni da leggere sulla bontà della mia condotta, ne sarei grata. Sarebbe rincuorante sapere che, al di là della propria percezione su come stiamo amministrando la nostra vita, nel cosmo esistono dei gabbiani mentori, gratis oltretutto.

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In realtà anche se non ho un gabbiano per amico, credo di essere sulla buona strada come Salvini, perché una gazza, dopo aver bazzicato per mesi sul mio terrazzo, ha deciso di adottarmi. Io le lascio del riso soffiato e in cambio lei mi onora della sua presenza quasi quotidianamente. In questi giorni di caldo matto e infernale, le ho anche messo anche un bacile colmo d’acqua dove poter bagnarsi all’occorrenza. Sembra apprezzi: mi lascia deiezioni felici sul balcone, e ogni tanto, la intravedo dalla finestra spiare dentro casa con uno sguardo curioso.

In un modo strano e anche vagamente antropocentrico, ho stabilito che abbiamo creato un rapporto. Io che sono un po’ romantica e  anche un po’ gitana, l’ho già investita del ruolo di animale guida. Credo che potrei soffrirne in autunno quando migrerà, se migrerà.

Ho scoperto  facendo delle puntuali ricerche su Wikipedia per colmare le mie lacune sull’argomento, che la gazza è uno degli animali più intelligenti di tutti, perché il rapporto fra la grandezza del suo cervello e la grandezza del suo corpo, è paragonabile solo ai cetacei, all’uomo e agli scimpanzé.

Cito:

“Le gazze, infatti, mostrano rituali sociali complessi, che evidenziano la presenza di cognizione socialeimmaginazionememoria episodicaautoconsapevolezza (la gazza è uno dei pochissimi animali ad aver passato con successo il test dello specchio) e perfino del lutto.”

Insomma sembra che la mia amica gazza abbia delle competenze ben superiori a quelle del nostro ministro dell’Interno o della Meloni, che ieri ha proposto di affondare le navi che trasportano i migranti, come se tutto ormai, la vita, la morte, il rispetto del prossimo fosse diventato una grande partita a Port Royal.

Io non ci sto, e anzi mi soffermo a pensare, che forse la mia amica gazza mi ha ricordato qualcosa che già sapevo, ma su cui è sempre bene fare un ripasso: cioè come prendersi cura di qualcuno sia una delle forme più alte di rispetto e empatia, e che l’uomo, auto-proclamandosi l’essere più intelligente di tutto il creato, dovrebbe esserne prode ambasciatore invece di pensare a difendere casa sua e  quello che succede a 10 metri dai suoi perimetri.

 

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Elogio dell’uscita forzata

Sembra che uno dei rimpianti più grandi di Bill Gates (si, anche i miliardari ne hanno) sia stata la progettazione del tasto di uscita forzata CTRL-ALT-CANC. Pare che di fatto si sia pentito di averlo reso così macchinoso, di aver creato questa sequenza di tre tasti da premere contemporaneamente, quando sarebbe potuto bastarne uno singolo, o forse due. La vicenda narra infatti che durante una riunione nella quale stava discutendo della questione con un ingegnere di IBM, entrambi fossero d’accordo che consentire di sbloccare forzatamente il pc con un solo tasto, sarebbe stato eccessivo, troppo immediato, e avrebbe portato le persone ad abusarne, anche in contesti in cui l’azione non sarebbe stata consigliabile.

Non so perché Bill ritenga questa cosa un errore: mi sembra al contrario frutto di ragionamenti ponderati, basati oltretutto su considerazioni puntuali sulla natura umana: dai loro la possibilità di rendere più immediato un processo e lo faranno, quasi sicuramente abusandone. Io se fossi Gates, avrei invece un’altra forma di rimpianto, ovvero che un’idea così utile, come la possibilità di sbloccare un sistema operativo bloccato con una semplice azione, non sia stato esteso e brevettato anche alla vita di noi poveri uomini, fatti di carne, ossa, e umano sentire.

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Nella vita di ognuno infatti, il tasso di complicazione è variabile ma sempre presente. Possiamo tranquillamente affermare che dipenda dall’intrecciarsi di molteplici fattori, fra cui il carattere, lo stile di vita, la vita sociale, il lavoro svolto, il caso, il destino e anche il trascorrere del tempo.

Tendenzialmente quando si invecchia si diventa più cauti, e si perde un po’ quell’afflato giovanile che porta a riflettere poco ed agire molto e che aumenta l’entropia potenziale. Questo vale come regola generale, anche se io, nonostante l’età, mi sento iscritta a pieni voti nel partito della complicazione. Questo deriva in parte da una componente caratteriale e in parte da una ipertrofia di pensiero che mi conduce sempre alla messa in discussione di tutto. Quindi tendenzialmente non sono mai tranquilla, anzi, a volte mi confronto con la classica situazione di un sistema operativo ingolfato da mille pensieri, con la CPU drenata da mille attività, e il panico che cresce, lento e inesorabile.

Pensate quindi che bello se nella nostra vita, in situazioni simili, ci potesse essere la possibilità di schiacciare tre punti, tipo non so una tempia, l’alluce e il palmo della mano contemporaneamente ed entrare in un’area di gestione del sistema, in cui con chiara freddezza si potesse mettere a fuoco le attività che ci impallano e con un semplice click, poter schiacciare TERMINA ATTIVITÀ e porre fine a pensieri molesti, cortocircuiti emotivi, stress, paure e via dicendo.

Io ne sarei estasiata. Certo c’è un potenziale effetto collaterale che sperimentiamo anche nelle nostre vite informatiche, ovvero la perdita di dati. Spegnere violentemente un computer bloccato si sa, ci fa esporre a questa possibilità, e se proseguiamo con il parallelismo, se avessimo questa opportunità nella vita reale, implicherebbe una perdita di ricordi, di memorie, di complessità e profondità di pensiero.

Bisognerebbe centellinare questo escamotage, tenerlo solo per gli scenari peggiori. Tipo la fine di un amore, o quei periodi di vita in cui tutto sembra andare male. Sarebbe un buon modo per cavarsi d’impiccio dalle cose della vita che sembrano insostenibili. E per Bacco, per quanto io tutto sommato possa ritenermi fortunata, ci sono state volte in cui se avessi avuto un’alternativa meno complicata, sono sicura che l’avrei scelta.

Quindi Bill se sei all’ascolto, o se per caso ti capiterà di passare su questo piccolo spazio di scrittura semi abbandonato, non rimpiangere di aver creato una procedura che ha preservato negli anni la sanità mentale di miliardi di persone alle prese con i blocchi dei tuoi sistemi operativi, ma sii contento invece di aver inspirato una giovane donna in una gradevole serata estiva a riprendere a scrivere dopo mesi, diciamo così, piuttosto complicati.

 

2019, o caro!

Buoni propositi, anche detti la dittatura delle liste

E anche questa volta, nonostante le profezie Maya ci volessero estinti lustri fa, siamo arrivati all’inizio di un nuovo anno. Non so mai come approcciarmi alla questione “nuovi inizi”, provo sempre una serie di sensazioni contrastanti che spaziano dalla tristezza alla consapevolezza che più gli anni avanzano più diventa necessario cercare il cambiamento, perché il flusso delle cose che accadono nella vita adulta di un individuo lavorante è relegato ai noiosi fatti della routine.

Così non sopporto le revisioni entusiastiche di fine anno tipo: ho mangiato in tanti ristoranti, ho letto tanti libri, ho viaggiato tanto, ho cucinato e imparato a ballare la polka, non tanto per il concetto in sé, che anzi è giusto e buono e sacrosanto e vero, ma perché non riesco a fare a patti con il fatto che questo sia il massimo che una persona possa aspettarsi da un anno di vita appena trascorso.

Ho un problema probabilmente (anzi sicuramente), anche perché i miei ultimi anni sono stati così complicati e duri che dovrei rendere grazia ai corsi di cucina se mai ne avessi fatto uno, e invece riesco solo a non sopportare questo delirio di revisioni e buoni propositi che mi circonda.

Io non li faccio, il mio unico buon proposito, che resta relegato nella sfera dell’impossibile, è ritirarmi in campagna come una nobildonna inglese con il solo pensiero di sfoltire i miei cespugli di rosa con un tronchesino e proteggerli dagli afidi. Pare più un sogno che un buon proposito, ma sono dell’idea che bisogna essere massimamente ambiziosi se si tratta di porsi degli obiettivi, sempre e comunque.

Quindi faccio capolino in questo 2019 con delle aspettative abbastanza realistiche, anche perché come dice il detto, Roma non è stata costruita in un giorno, e aspettarmi cambiamenti epocali da una situazione sulla quale non sto lavorando non solo non è costruttivo, ma anche infantile. L’unica cosa di cui sono certa, è che se mi prefiggerò degli obiettivi, resteranno nell’iperuranio delle idee libere e non li metterò per iscritto.

La questione delle liste infatti mi infastidisce assai: odio questo dilagare delle liste imperanti, liste di libri da leggere, liste di motivi per cui essere grati, liste di propositi, liste di superfood: comprendo l’utile e proficuo metodo dell’appuntarsi le cose, che però io delego a quello che non sopporto fare, tipo la spesa o le attività che devo svolgere in ufficio, perché in entrambi i casi mi dimentico spesso quello che non amo affrontare.

Trovo anche che ci sia un certo misunderstanding di fondo in questa questione, ovvero se sei davvero coinvolto da una situazione, da un’idea o da un messaggio, sei un evidente portavoce vivente di quell’idea e non è necessario fare del proselitismo o appuntarti che per quell’anno perché ti piace leggere, leggerai 100 libri. O che sei davvero grato alla vita, perché scrivi tutte le sere le cose per cui sei grato. O che sei vero amante di cinema, perché te ne guardi 1000 all’anno.

Certo, sono anche conscia del prezioso potere dello scripta manent verba volant, ma comunque ho una certa avversione ideologica, forse un poco snob, per questi fenomeni di costume. Questo è un mio grande limite e difetto: mi perdo dei pezzi di vita a star a guardare quello che non mi piace, lo trovo ipnotico e bellissimo, come guardare i film trash tipo Sharknado.

Comunque, che io lo voglia o meno il 2019 è iniziato, e non so bene quello che succederà, ma so che se sono riuscita a sopravvivere dal 2015 al 2017 (anni funestissimi e pieni di pensieri, troppi pensieri), probabilmente sopravviverò anche a questo, tolto che qualche squalo inizi a piovere dal cielo!

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Buon Anno a tutti!

L’Attesa

Compianta amica dei verdi anni

Uno degli aspetti di cui mi sento più privata da questi tempi balordi è quello dell’attesa. Ci ho riflettuto giusto questo week-end, reduce da un binge watching scatenato che mi ha portata a consumare una serie tv di tipo dodici puntate in due giorni. Nonostante non riuscissi a smettere, posseduta dal demone del consumo folle e incapace di pensare ad altro se non terminarla, alla fine, terminata la scorpacciata, concluso il valzer, visto il finale, non mi sono sentita meglio. Al contrario, ho provato la stessa sensazione del mal di pancia dopo un’indigestione, una sorta di nausea del technicolor, un rifiuto totale della situazione, nonché a conti fatti una totale non comprensione di quello che avevo visto perché concentrato in un lasso di tempo così ristretto.

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Automaticamente ho ripensato a come funzionavano le cose quando ero una bambina, quando non tutto era on demand, anzi quando l’attesa e il pathos erano parte preponderante della mia vita. E non so se sia la classica nostalgia canaglia, o altro, ma mi sembra che tutto fosse sì più complicato, ma anche più bello. Ricordo che si aspettava per giorni, a volte settimane, che un film o un cartone venisse proiettato in tv.  E quando questo succedeva uno dei miei fratelli si piazzava su tappeto una mezz’ora prima, in attesa che la proiezione iniziasse, per poi comunicarlo con un poderoso urlo: “É iniziato, correte”.  E si correva davvero, tutti incollati al televisore, realmente concentrati sulla visione, che magari per mesi o settimane non ci sarebbe più stata.

Questa prospettiva della non ripetizione immediata creava un’emozione molto intensa, e non solo, in qualche modo il messaggio che si riceva aveva qualcosa di pedagogico, si era educati all’idea che non tutto poteva essere posseduto subito e ora. C’erano delle regole e una di quelle regole era saper aspettare. Aspettare che il fidanzatino telefonasse senza sapere quando, aspettare che qualcuno venisse a trovarci senza annunciarsi, aspettare che il proprio cartone preferito andasse in televisione, aspettare l’estate per andare al mare, aspettare per poter avere l’età giusta per restare fuori a dormire e così via.

Negli ultimi anni tutto è cambiato, tutto è diventando on demand. Possiamo decidere quando e come e perché vedere un film o una serie tv (con qualche limitata eccezione), possiamo telefonare e raggiungere qualcuno in qualsiasi luogo e ora, possiamo andare al mare d’inverno, possiamo ordinarci il pranzo, la spesa e qualsiasi cosa senza muoverci da casa, perché qualcuno lo porterà per noi.

È come se le cose del mondo si stiano sempre più organizzando verso l’ego riferimento, verso la risoluzione di qualsiasi tensione o esigenza che proviene dall’io. Egocentriche le cose lo sono sempre state: l’uomo ha  vissuto nel mondo plasmandolo e intervenendo sulla Natura per renderlo più funzionale alla sua vita. Ora sta succedendo una cosa simile ma diversa, perché la tecnologia ha in realtà risposto alle necessità non dell’uomo come categoria, ma del singolo, come individuo, ponendolo al centro dello sviluppo di risposte funzionali. Riduzione dei tempi d’attesa, riduzione della frustrazione, riduzione del contatto con l’Altro, riduzione delle code, riduzione delle complicazioni.

Tutte cose utili e buone, che però hanno spazzato via anche il pathos, la gioia di non sapere, il languore che deriva dal non poter controllare tutto e che porta ad aprirsi alla magia dell’inedito e dello sconosciuto.

Io credo che non ci debba stupire molto di quello che sta succedendo nel mondo in questo momento: si sta organizzando sempre di più una risposta, anche politica, che tutela le necessità del singolo e non della collettività, concetto probabilmente già in via d’estinzione, anche se continuamente citato e caldeggiato.

Comunque, nonostante non sarò io a risolvere gli scabrosi problemi di questa umanità, mi piace pormi  sommi quesiti esistenziali che peggiorano il mio mal di stomaco, problematizzano le mie notti, e mi fanno consumare quantità eccessive di cioccolata.

Per chi volesse approfondire la questione relativa alla nostalgia in modo puntuale, vi lascio questo articolo che la spiega meglio di come la potrei spiegare io. Non abbiate pregiudizi sulla testata che lo pubblica, perché è davvero scritto bene e il tema è davvero interessante e pieno di spunti.

Vorrei però sapere da chi mi legge, se anche voi siete dei nostalgici oppure vi integrate bene nel mondo, e nel caso come fate a gestirla decentemente, ecco. Io onestamente sono abbastanza disastrosa, ma mi piace pensare che nel tempo potrò migliorare!

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