Apocalypse Draghi

Sapere di non sapere e voler per questo sapere

Vorrei fortemente commentare con l’astio che sento fluire forte dentro di me (come la forza per Obi Wan Kenobi ma più simile al suo lato oscuro) il vergognoso teatrino politico accaduto giusto ieri che ha ci ha condotti verso il crollo del governo n.3248348, ma non lo farò.

Non lo farò perché sto ancora cercando di elaborare il tutto. Sono bloccata alla fase della negazione, spero che un giorno, come Cenerentola, ci sveglieremo tutti da questo brutto incubo e che finalmente potremmo confrontarci con una classe politica migliore, una classe che sappia presidiare il ruolo con la responsabilità, la lungimiranza e l’apertura al futuro che le sfide globali ci impongono.

Per ora non è così, i nostri politici, come il cambiamento climatico, ogni anno rompono i record dell’anno precedente, e ci lasciano un po’ increduli e spaventati a fare i conti con un futuro incerto e pieno di incognite.

Per la verità il 2022 ci sta dando grandi soddisfazioni da questo punto di vista, fra guerre, siccità, cavallette, caldo record, ghiacciai che si disfano, ondate di Covid e crisi di governo, credo che ognuno di noi abbia le bisacce piene di pensieri.

Io per la prima volta, invece di farmi prendere dal panico come mio solito e diventare disfattista (è l’Apocalisse, ci estingueremo e sarà giusto così) sto cercando di guardare al fenomeno da una prospettiva più ampia. Ho capito che l’ansia si genera anche dall’ignoranza in cui sono immersa e in cui sono stata cresciuta rispetto ad alcuni temi e che voglio assolutamente colmare.

Riflettevo qualche giorno fa che ho quasi quarant’anni e ignoro gran parte dei flussi/procedure che mi consentono di fare la vita che faccio. Mi sono resa conto che non so da dove viene l’energia di cui dispongo, in che percentuali è prodotta da combustibili fossili, da gas, da energie rinnovabili, da centrali idroelettriche, non so quanto pesano in termini di kilowatt le azioni che compio giornalmente, non so fisicamente come avviene l’erogazione dell’energia.

Lo stesso vale per l’acqua e gestione dei rifiuti. So che apro il rubinetto e sono abituata al fatto che esca dell’acqua, ma non so da dove viene quest’acqua, so che c’è un acquedotto, ma da dove pesca l’acquedotto? Dai fiume, dalle falde acquifere?  Che percorsi attraversa prima di arrivare al mio condominio e al mio rubinetto? Quanta acqua si disperde? Dove finisce l’acqua degli scarichi? Viene depurata e scaricata dove?

I rifiuti che produco e che cerco di differenziare, dove finiscono? Vengono bruciati, o riciclati per davvero? In che percentuale? Quali sono quelli più impattanti dal punto di vista ambientale e quali meno? Su quali aspetti dovrei cercare di lavorare come individuo per ridurre il mio impatto globale?

Ho mille domande di questo tipo che fanno capolino nel mio universo personale e che mi stupisco anche non mi sia posta prima, anche se sono perfettamente conscia del perché questo sia avvenuto.

In parte credo derivi da una volontà politica di tenere il cittadino il più possibile all’oscuro dei processi di gestione della “cosa pubblica” (ma anche privata), in modo da ridurre potenzialmente la critica all’operato e alla gestione, in parte anche dal malcostume che abbiamo, per cui se paghiamo per dei servizi (energia/acqua/rifiuti etc) non ci interessano i processi che li sostengono, ma solo che funzionino o che ci vengano fatti pagare di meno.

È importantissimo invece che queste cose vengano insegnate il prima possibile ai cittadini, ma anche ai bambini nelle scuole, perché l’unica carta che possiamo giocarci per riuscire ad immaginare un futuro non completamente apocalittico è conoscere i processi e spalancare le porte della consapevolezza e della scelta.

Se io conosco, conosco i flussi per cui servizi/oggetti arrivano a me, posso scegliere.

Se so che la fettina di pollo al supermercato è lì perché un tenero polletto è stato ipernutrito in una gabbia 20*20, non hai mai avuto l’opportunità di vedere il sole, e dopo 90 giorni di crescita a mangimi è stato ucciso per finire nel mio piatto, posso decidere di non mangiarlo. Oppure posso anche fregarmene del benessere animale, mangiarlo, ma essere attento e consapevole su altri temi.

Insomma c’è spazio per tutti, per la sensibilità e per gli interessi di ognuno di noi. Credo che però l’unico strumento per affrontare l’incerto futuro che ci attende sia la cultura, non intesa ovviamente in modo prettamente accademico, ma come interesse/coinvolgimento conoscenza del mondo che viviamo tutti i giorni.

Liberiamoci dall’ignoranza, e forse, un giorno ricorderemo Salvini e la Meloni come le verruche che si prendevano ai corsi di nuoto, fastidiose, recidive, ma anche estirpabili.

La bellezza ti fa triste

Anche i capelli bianchi in realtà

Uno degli aspetti che hanno inciso sulla mia decisione di abbandonare una ridente carriera in una GMB (Grande Multinazionale Brutta) per un futuro essenzialmente ignoto, è stata un’avvilente nausea che nel tempo avevo sviluppato per i temi che quotidianamente mi trovavo ad affrontare.

Come dico ai sempre colloqui quando mi viene chiesto di definire la mia posizione lavorativa, io sono, (lavorativamente parlando of course), una professionista della cosmetica, cioè una (poco lungimirante) che dal primo giorno ha sempre e solo lavorato per grandi aziende che producono e distribuiscono cosmetici, quindi creme viso, trucchi, parrucchi e via dicendo.

All’inizio, quando giovane e fresca di laurea cercavo la via più veloce per rendermi autonoma economicamente e ho iniziato uno stage in una prestigiosa azienda del settore, mi sembrava tutto un grande parco dei divertimenti. Potevo finalmente conoscere i segreti di un mondo molto al femminile, provare trucchi, testare nuove creme, accedere al dietro le quinte di uno dei settori industriali più floridi e interessanti (dal punto di vista tematico perlomeno) per una giovane donna.

Passata l’ubriacatura del primo momento però, ho iniziato a notare come lo stare immersa tutto il giorno in questa rutilante fiera della vanità, stesse amplificando in me alcune questioni in un modo abbastanza inquietante.

Ero sempre ossessionata da come apparivo, e da come appariva la mia pelle, passavo le giornate a spalmarmi creme e cremine, a guardarmi allo specchio in cerca di approvazione. Progressivamente pensieri che prima mi avevano sfiorato parzialmente avevano iniziato a diventare non sono primari ma anche onnipresenti. E, ovviamente, non mi facevano stare bene.

Erano però molto funzionali al sistema: l’essere target del prodotto che vendevo mi rendeva la migliore consumatrice di sempre, quella che in gergo chiamavamo top client, ricorsiva, altospendente, performativa, vittima consapevole del messaggio che predicavo.

Vivevo (e vivo in realtà) i segni inevitabili di un sano invecchiare, (i primi capelli bianchi e le piccole rughe) come dei veri e propri drammi, accompagnati anche da un insano senso di colpa che mi faceva pensare che non avevo fatto abbastanza e che potevo fare di più: potevo comprare creme più costose, prendere più vitamine, espormi meno al sole, fare più sport.

Avevo introiettato, come tutti, il mito distruttivo della bellezza e dell’ossessiva cura del sé, quello che abbastanza comunemente si vede nei volti devastati dalla chirurgia estetica, o che viviamo quotidianamente nelle nostre vite sentendoci in colpa se non riusciamo ad avere una forma o un peso “ideale”, se non dedichiamo abbastanza tempo allo sport o abbiamo un’alimentazione sregolata.

Come se in fondo l’unico modo per prendersi cura di sé, sia quello di occuparci del nostro corpo, quando invece il concetto di cura comprende un’attenzione e un allineamento profondo con il proprio sé, un ascolto quotidiano che si affina nel tempo e che ci dovrebbe aiutare a riscoprire la nostra unica singolarità. Una riscoperta che probabilmente metterebbe in discussione molti aspetti del nostro stile di vita e che nuocerebbe agli imperativi del capitalismo che ci vuole instancabili lavoratori, bulimici consumatori e inermi pensatori.

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