Una donna virtuosa

L’amore in tempi di crisi

In questi giorni ho riflettuto a lungo sul tema dell’amore. Mi si è ripetutamente proposto attraverso diversi contributi: ho terminato di leggere Notre-Dame de Paris, ho visto al cinema il pluricitato “Call me by your name” di Luca Guadagnino, e complice la pressante pubblicità di San Valentino che perseguita ovunque e chiunque non ho potuto non soffermarmi a riflettere. Non tanto sull’amore in sé, ma sulla verità dell’amore, che trovo sia un punto molto più interessante.

In fondo cresciamo con un’idea dei sentimenti molto stereotipata. Film, libri, racconti ci narrano di amori passionali, struggenti, a volte maledetti, ma sempre sostenuti da questa grande forza che tutto muove. Sembra che quando siamo innamorati si perda il senno, che l’incontro con l’anima gemella abbia quasi un potenziale salvifico, ci elevi dalla mediocritas, ci renda individui migliori, riempia bocca e cuore di parole e intenzioni romantiche, bruci i nostri sensi fino a desiderare l’altro in modi che non avevamo mai sperimentato.

Di fatto è così. Non dissento, la magia dell’incontro di due anime e di due corpi crea un vortice di sensazioni e sentimenti assolutamente unici e irripetibili. Ma passata questa fase, cosa succede all’amore?

Perché se si cerca qualcosa su quello che succede dopo, i contributi crollano precipitosamente. Raccontare il delicato passaggio fra il prima e il dopo, fra un quotidiano condiviso che genera routine, con la passione che si affievolisce, e l’alterità di due individui che da elemento di interesse iniziale diventa nel tempo abisso, non è facile, nonostante di fatto sia la fase più ampia che interessa un rapporto amoroso di una certa lunghezza.

Io mi sono interrogata tanto su questa fase, non tanto perché nutra un interesse antropologico sulla questione, ma perché più egoisticamente ho vissuto in prima persona, e sto vivendo un periodo che ha messo a dura prova la mia coppia. Non saprei spiegare bene come sia successo, ma dopo sei anni di relazione e quattro di convivenza, un giorno ci siamo ritrovati ad affrontare una crisi. Non una crisi passeggera, di quelle che con due mazzi di rose e due moine risolvi tutto, ma una crisi sostanziale, di prospettive, di quelle che investono il futuro e che fanno vacillare tutto.

E in mezzo a una crisi le regole dei sentimenti cambiano. Ci si trova a navigare in un mare burrascoso in cui tutto sembra vacillare. Tutto quello che prima era naturale, diventa difficile, si sperimentano sentimenti contrastanti, fa capolino una sensazione di solitudine difficile da verbalizzare.  E qual è la verità dell’amore quando sembra che tutto quel meraviglioso tripudio di ormoni e sentimenti sia sparito?

La verità è che diventa una scelta. Al pari di quella di cambiare lavoro. Si sceglie di amare, si sceglie di restare con una persona,  si sceglie di rimescolare le carte. Sono convinta che al di là delle belle parole e dei buoni sentimenti siano gli atti pratici a determinare gli esiti di un rapporto, la capacità di mettersi in discussione, di crescere insieme, accettando ed integrando i cambiamenti dell’altro.

Questa è la fase più bella, credo: la trasformazione di un sentimento è un processo delicatissimo, molto fragile, che va protetto e difeso con discrezione, ma è l’unico processo in grado di generare qualcosa di nuovo.

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A questo proposito vi introduco questo bellissimo libro che inserirò nella rubrica, Libri Introvabili, o Libri non alla moda, o Libri che non legge nessuno, che si intitola “Una donna virtuosa” di Kaye Gibbons.

È un librettino di 150 pagine edito da Feltrinelli negli anni 90’, io ho ancora una versione con il prezzo il lire. Credo però che si trovi ancora in giro abbastanza facilmente  (online lo trovate qui ).

È una storia d’amore ambientata nell’America rurale degli anni ’50. La narrazione è a due voci, un capitolo viene raccontato da Jack (il marito) e uno da Ruby (la moglie). Questo escamotage, per altro gestito benissimo anche dal punto di vista del registro linguistico, regala un grado di immersività durante la lettura davvero profondo.

Il loro rapporto, che sembra non avere niente di speciale, è invece ricco di sentimenti discreti e di piccoli gesti  di grandissima tenerezza. Ci sono dei dettagli veramente commuoventi.

Ve ne riporto uno. Ruby si ammala di cancro ai polmoni (non è uno spoiler perché viene raccontato nel primo capitolo), e i mesi prima di morire passa il tempo a cucinare e surgelare in monoporzioni  i pasti del marito, in modo che Jack, per i mesi a venire dopo la sua morte a pranzo e cena,  non debba far altro che aprire il freezer e scongelarne uno. Lo fa per evitargli in futuro di sentire troppo il vuoto della sua perdita, e perchè sa che Jack odia cucinare.

Non so voi, ma a me questa cosa fa venire la pelle d’oca. Credo di aver pianto al secondo capitolo, sono già fan di Kaye Gibbons, una misconosciuta autrice americana che ha scritto pochi libri, ma che sembra siano davvero imperdibili oltre che praticamente introvabili.

Comunque il libro è zeppo di questi micro esempi di delicatezza che giorno dopo giorno costruiscono la storia di un vero e grande amore. Se vi interessasse leggerlo e vi fosse impossibile trovarlo, perchè anche voi siete appassionati di storie mai più ristampate e lasciate all’oblio, sono sempre disponibile a cedere la mia copia.

Lo trovo anche un buon regalo da fare al proprio innamorato/a, se proprio volete festeggiare San Valentino e non volete arricchire la Nestlé facendovi venire le carie con i baci Perugina.

 

Leggere Hugo in metropolitana

187 anni e non sentirli

Io sono una grande lettrice di classici. Mi piacciono per tutta una serie di motivi che ci metterei una vita ad elencare, ma che in sintesi si rifanno al senso di alterità che un libro, ma anche un’opera musicale o artistica, mi sanno trasmettere. Sono poco interessata alla modernità, forse perché esperendola in prima persona presumo (arrogantella!) di avere già gli strumenti per codificarla e quindi investo il mio tempo a confrontarmi con qualcosa di nuovo.

I classici, da questo punto di vista sono perfetti: ti scaraventano in epoche che non esistono più, in contesti completamente differenti da quelli odierni, utilizzando una forma linguistica molto diversa dal linguaggio attuale,  raccontando però esperienze  e sentimenti che sono universali. Leggere un classico è un viaggio, molto spesso frustante o difficile, ma che ripaga di grandissime soddisfazioni, anche perché insomma se un libro è assurto a questo status di certo non l’ha scritto Moccia o Trapattoni.

Tutta questa bellissima intro, nella quale mi sono impegnata tantissimo per dimostrarvi che so anche argomentare in modo puntuale (lo faccio sempre per dimostrare alla mia insegnante delle medie che alla fine ce la posso fare), per dire che da qualche tempo mi sono imbarcata nella lettura di “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo.

Ho scelto il buon Hugo perché non avevo mai letto niente di suo e questo non mi faceva sentire bene. Hugo ci ha regalato dei personaggi  e delle storie epiche, che io avevo incrociato in film, cartoni e opere teatrali e ho voluto cimentarmi in questa lettura per capire perché la storia di Quasimodo e la Esmeralda, è diventata una delle vicende più rappresentate della storia.

Devo dire che nonostante non l’abbia ancora finito, l’ho capito. Il libro è considerato un’opera giovanile,  viene pubblicato quando Victor è un pischello, ha 29 anni, e la critica ritiene che vi siano diversi errori commessi dallo scrittore nella stesura del romanzo, tra cui una certa attitudine al citazionismo in latino, capitoli interi pieni di personaggi della storia parigina che non hanno nulla a che fare con la vicenda, sezioni interamente dedicate a riflessioni sull’architettura, alla stampa, e a Parigi.

Insomma non una lettura facile: la trama è costantemente interrotta e non mancano i momenti in cui ti chiedi quando finirà il capitolo su Gutemberg o sull’architettura romanica. Non vi parlo nemmeno del plot, che immagino tutti conosciate, ma arrivo direttamente a ciò che mi preme dire, ovvero che tenendo duro su queste “piene letterarie” di informazioni, arriva il meritato premio.  I capitoli dedicati allo sviluppo vero e proprio della trama, sono infatti dei capolavori, i personaggi sono descritti in modo magistrale, sono sfaccettati, ambigui, trasudano emozioni, hanno delle caratterizzazioni perfette.

Anche Dickens è un maestro nel dare vita ai personaggi, però i suoi molto spesso sono delle macchiette, o comunque c’è sempre un certo pudore British nei suoi libri che ti impedisce un coinvolgimento pieno nella vicenda.

Hugo è più intenso, sensuale direi, a volte anche sessuale, e questo rende la sua scrittura davvero forte. C’è un pezzo dove per descrivere Quasimodo che suona le campane, lo descrive come un demone che cavalca la campana grande della torre di Notre Dame, Marie, e la campana risponde al suo tocco nitrendo,  impennandosi e dimenandosi. Non è forse una chiara allusione a un rapporto amoroso tra due persone?

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In alcuni tratti invece ti annienta, c’è ad esempio un capitolo in cui Quasimodo è sottoposto ad un interrogatorio alla Prefettura di Parigi. Quasimodo è sordo e semi muto e il giudice che lo interroga è sordo pure lui, quindi c’è questo dialogo grottesco che in parte è comico, ma in parte ti uccide, perché tutti ridono, lanciano patate e immondizia sul gobbo,  incitano il giudice.  Vi viene la pelle d’oca, garantito.

Lo adoro questo francese. É capace di passare da un registro drammatico a uno comico in zero secondi.  Di parlare di filosofia, architettura, alchimia e scienza così, come se ci fosse già nato con tutta questa conoscenza. E aveva solo 29 anni. Io a 29 anni ero impegnata a combattere l’idea di entrare nella vita adulta ed ero turbata all’idea di fare un finanziamento per comprarmi la macchina.

Per altro ho scoperto grazie a lui che Nicolas Flamel, noto a tutti grazie alla famosa citazione in Harry Potter, in realtà è stato per davvero un alchimista francese famosissimo che si è dedicato alla ricerca della pietra filosofale. Magari voi lo sapevate già, ma io no. Forse la Rowling è incappata in Flamel proprio leggendo Notre-Dame de Paris.

Nel caso tu o Rowling, non l’abbia letto, e dovessi capitare sul mio blog, fallo perché merita.

Fatelo tutti, perché potrebbe essere un’esperienza che non vi cambia la vita, ma di sicuro la emoziona, e visto che siamo tutti alla ricerca di emozioni, invece di farlo in modi stupidi, facciamolo usufruendo di queste pagine, che hanno 187 anni, ma vi garantisco, non li dimostrano affatto.

Grandi interrogativi di inizio anno

Mai ‘na gioia

Non me la sento di fare prognostici per questo 2018. Mi spaventa progettare il futuro, o anche solo immaginarlo. Sarà che ci sono troppi elementi traballanti nella mia vita ultimamente, situazioni appese che durano da troppo tempo perché possano resistere incolumi anche quest’anno.  Mi aspetto la famosa resa dei conti che sembra essere lì, ad attendermi, supportata anche da previsioni astrali che mi vedono protagonista di una Waterloo astrologica. Saturno e Urano contro, quadrature di pianeti non ancora conosciuti, Giove in retromarcia. Non che abbia mai creduto alla veridicità degli oroscopi, ma sono anche una persona umile che vede attorno a sé un mondo pieno di fenomeni ben lungi dall’essere conosciuti e spiegati, e quindi chi sono io per dire che non ci sia una connessione fra stelle e destino. Di certo c’è una connessione fra Luna e maree, quindi insomma se i pianeti influenzano il mondo fisico, forse possono anche influenzare quello immateriale.

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Comunque una cosa mi ero ripromessa, di non leggere libri di letteratura russa all’inizio dell’anno, come feci l’anno scorso con Memorie dal Sottosuolo del caro Fëdor, perché la letteratura russa è una specie di maledizione, è tanto bella quanto scava a fondo e iniziare l’anno con un certo grado di profondità impone che quel grado di introspezione tu possa supportarlo durante tutto l’anno, e invece da questo punto di vista sono stata una mezza chiavica: ho perso un sacco di tempo in modo inutile, guardando serie tv improbabili, leggendo riviste femminili prive di utilità, commiserandomi per tutto quello che non funzionava come volevo io, senza fare nulla ovviamente che potesse dare una direzione precisa agli eventi.

Quindi trascinata un po’ come una barchetta spinta dalla corrente, durante il passato 2017 non ho fatto altro che ruotare attorno al perimetro di una vasca ittica da allevamento, compiendo grandi chilometri che di fatto non mi hanno portata da nessuna parte. Forse questa è la vita adulta, non lo so, ma è come se non riuscissi ad accettare questa specie di emorragia di vita che perdiamo quotidianamente lasciando trascorrere le giornate così, come vengono.

Lo trovo lacerante e forse non mi rassegnerò mai, come non riuscirò mai a rassegnarmi al fatto  di non essere nata con il talento di Jane Austen e il genio di Woody Allen.

Forse mi sto preparando a lunedì 15 gennaio che pare sia il lunedì più triste di tutto l’anno, quando ci si rende conto che mancano sei mesi alle vacanze estive e che quelle natalizie sono del tutto archiviate. Io ho passato le vacanze natalizie a letto con l’influenza della vita, ho saltato Natale, Santo Stefano, Capodanno e la Befana. Insomma il Blue Monday mi dovrebbe fare una pippa, invece riesce a deprimermi più di quanto batteri e virus abbiano già fatto.

Mai ‘na gioia, insomma. Mi consolo correggendomi la tisana con il Braulio la sera prima di andare a dormire: forse entro la fine dell’anno riesco a farmi venire la cirrosi epatica  come Bukowski. Vi aggiorno!

Buon Anno a tutti eh!

 

 

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