Miopia

Quando il sogno non diventa realtà

Quando ero adolescente e iniziavo ad impattare con la realtà ero fermamente convinta che crescendo le cose sarebbero migliorate. Sarebbe migliorato il rapporto con me stessa e forse anche il mondo. Senza dubbio ero certa che avrei smesso di indossare gli occhiali a goccia che i miei mi avevano comprato per compensare l’orribile miopia che si era manifestata funesta ai miei dodici anni. Mi accorsi che qualcosa non andava con la mia vista, perché scambiavo tutti gli uomini che vedevo da lontano per mio Zio Felice, non importa se si trattasse di venditori di aspirapolvere, postini o vigili. Per semplificarmi la vita, ogni volta che qualcuno suonava al campanello dei miei, lo facevo entrare certa che fosse un volto conosciuto. Questo ovviamente non era considerato un bene dalla mia famiglia, che dopo aver ipotizzato un attaccamento eccessivo allo zio, mi portò dall’oculista, validando i dubbi che erano sorti in merito alla mia vista. Ne uscii, non potendo gran che scegliere fra le montature anni novanta dell’ottico del paese, con un paio di occhiali alla Steve di Otto sotto un Tetto: enormi, improbabili, assolutamente orribili.

Li odiavo a tal punto da toglierli per la maggior parte del tempo, continuando quindi a salutare gente che non conoscevo per strada, cosa che in fondo mi piaceva, perché mi aiutava a superare l’invalidante timidezza da cui ero affetta.

Jaleel White

In quella fase, in cui facevo a patti con gli sbalzi d’umore adolescenziali, con la goffaggine e l’assoluta inadeguatezza del mio essere, guardavo con speranza al futuro e mi immaginavo a trent’anni come una grande figa francese che avrebbe insegnato Letteratura in qualche Università nel mondo, con un paio di occhiali da vista alla moda, un marito filosofo, una casa di campagna in Provenza e tre bambini biondi, belli e sorridenti. Quell’adolescente impacciata e timida, con il seno piatto e la montatura d’occhiali improbabile, sognava il suo futuro disegnandone i contorni con speranza.

Ora che ho trent’anni (vado per i trentaquattro) e neanche una delle suddette condizioni si è avverata, guardo al futuro con meno ottimismo. A onor di cronaca una si: da sei anni divido infatti la difficoltà dell’esistenza con il Regista, mio amato compagno di vita, che pur non essendo filosofo, esercita una professione nell’ambito video-artistico cosa che fa di lui  a tutti gli effetti un umanista. Per il resto nulla è migliorato, continuo a sbattere la testa contro la mia incapacità di stare al mondo in modo efficiente e l’universo non mi sembra stia andando una direzione positiva per il proseguimento della vita. Ora che si sono messi a bisticciare anche Trump e il capo della Corea del Nord, gli scenari diventano sempre più apocalittici.

Per non cadere vittima della depressione di fronte al mio lavoro impiegatizio in un’orribile multinazionale, al salario risicato e alle mille difficoltà di vita che si stanno palesando sulla mia strada, fantastico sui miei sessant’anni prorogando alla seconda parte della mia vita la realizzazione di alcuni dei miei sogni, chiaramente ridimensionati all’età. Quindi mi immagino attraversare con facilità la menopausa, evitando l’osteoporosi e gli acciacchi, riuscendo forse a rientrare nel mondo della cultura grazie alla terza Università, magari madre di qualche giovane che immagino all’estero a perseguire i propri sogni, ancora compagna del Regista, che spero nel frattempo sia diventato, almeno lui, il nuovo Sorrentino.

Sognare non costa nulla, diceva qualche saggio di cui ora non ricordo il nome e che non ho voglia di cercare su Google, ma magari stasera,  nonostante la mia montatura di occhiali mi piaccia molto, proverò a toglierli, porterò il cane a fare il suo giretto e saluterò gente che non conosco, così per ricordare la mia tenerezza adolescenziale e perché no per farmi nuovi amici fra gli anziani che vivono nella mia zona, e che  a quanto pare sembrano gli unici socievoli nella bella Milano.

Il riso degli agnelli

Speculazioni sul Daimon

E anche questa Pasqua è andata. Sono estremamente lieta di archiviare coniglietti,  uova di cioccolato, e pure l’immagine del Berlusca abbracciato all’agnellino che ha capeggiato sulla pagina del Corriere.it per giorni e che mi ha inquietata oltremodo. Sarà che a lato c’era il trailer del nuovo remake di IT,  sarà che tutta quella levigatezza cutanea da filtro Photoshop su un 80enne fa un po’ necrologio, o forse l’impressione che l’agnellino si sentisse pure a suo agio, ma vi garantisco è stato l’incubo di Pasqua peggiore.  Gli altri non ve li sto neanche ad elencare, ma  sono felice di essere riuscita ad evitare con un incastro di finti impegni machiavellici il pranzo in Famiglia, che avrebbe previsto portate di cibo infinite alternate ai classici litigi epocali da nucleo famigliare disfunzionale, quale è il mio.

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Immagino che sia retaggio comune di molte famiglie, ma la mia è in grado di dare il peggio di sé stessa a Natale e Pasqua, o durante tutte le ricorrenze in cui è necessario metterci del buonsenso che nessuno pare in realtà aver voglia di dimostrare. Quindi se posso, se il mio diniego non si trasforma in dramma, spesso non mi paleso, pagando il dazio del diventare automaticamente la figlia degenere.

Come diceva Tolstoj: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”, e credo con un’assoluta certezza che si sia fatto questa opinione osservando i pranzi di famiglia, che sono uno spaccato socio-analitico ben più affidabile del paniere Istat.

Comunque il suddetto post voleva si essere dedicato al mio amico vegano Berlusca, ma anche in realtà al nuovo libro che sto leggendo, già  praticamente finito che è: “Il codice dell’anima” di James Hillman. Non è un romanzo, è un saggio-testo d’ impronta analitico-filosofica, scritto da uno degli analisti junghiani più famosi e anche controversi, quale era il buon Hillman. L’oggetto del testo si rifà al mito di Er di Platone, il quale afferma a grandi linee che quando veniamo al mondo, non siamo soli,  la nostra anima sceglie un “compagno” che i greci chiamavano daimon. Il daimon, che non è Doraemon, per quanto l’assonanza del nome getti luce interessanti sul cartone animato, è una sorta di spirito guida, un’immagine essenziale di noi stessi e della nostra più profonda vocazione. A supporto di questa tesi ci sono esempi di uomini straordinari, provenienti dal mondo della scienza, dello spettacolo, della politica, la cui vocazione sembrava davvero infusa da aspetti divini, tanto si manifestava con forza.

È un libro molto interessante, e al di là di alcuni aspetti, su cui si può dissentire o meno, c’è alla base di tutto una riflessione molto profonda sul nostro senso di uomini sulla terra, sulla direzione che le nostre vite prendono, che molto spesso è davvero lontana dalla nostra essenza più profonda e dalla nostra sensibilità. Secondo Hillman ci stiamo inoltrando in una società sempre più psicotica, in tutte le sue espressioni, perché si è perso questo contatto con il sé che invece è sempre stato un punto fondamentale nella vita dell’uomo prima che il consumismo arrivasse e ci convincesse a comprare come degli automi per sublimare i nostri conflitti.

Qui vi ho dato un’estrema sintesi dell’opera, ma per i più interessati a questo tema, ne consiglio la lettura, si legge molto bene, è scorrevole, Hillman usa un lessico molto semplice e se avrete una matita farete molte sottolineature. Ci sono moltissimi spunti di riflessione e una bibliografia molto estesa, per cui ci sono diversi riferimenti a molte opere che potrete approfondire. Qualora questo tema non vi dovesse interessare, ci sono sempre le avventure di Doraemon, una nobile alternativa nipponica ai turbamenti dell’anima!

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Maledetta Primavera

Che fretta c’era!

Ebbene si, la Primavera è arrivata. Già da qualche settimana devo dire, ma io sono abbastanza lenta a interiorizzare i cambiamenti del contesto che mi circonda, soprattutto climatico. Quindi passo sempre attraverso fasi progressive di rifiuto in cui continuo a mettere capi d’abbigliamento invernale, finché prostrata dall’evidente  gioia di cui il mondo si sazia di fronte ai fiori, agli uccellini e alle belle giornate di sole, capitolo anche io.

Non è mai una capitolazione indolore, io mal sopporto il caldo e qualsiasi fase mi avvicini all’estate lombarda mi getta nello sconforto, riportandomi ai dolorosi ricordi dell’estate 2015:  al colmo della disperazione da caldo, quando nemmeno il condizionatore riusciva a refrigerare il mio appartamento, mi coricavo la notte con le cariche del freezer dentro le lenzuola, pregando numi pagani per farmi addormentare.

Inoltre una bella giornata di sole con il cielo terso, che rende grazia persino a Milano, acuisce l’insofferenza per la mia vita da ufficio, che mi vede protagonista, come molti altri, di interminabili giornate seduta alla scrivania  intenta ad occuparmi di cose che non mi interessano e spesso mi mortificano, ma che sono l’unica soluzione per il procacciamento del vivere quotidiano. Quindi in questi giorni, non faccio altro che fare un refresh isterico della pagina Ilmeteo.it, per fare delle valutazioni ponderate su come sarà l’estate 2017. Se qualcuno che mi legge è meteorologo,  si faccia avanti e dica la sua.

Comunque, giusto per evitare che questo post diventi oggetto delle mie deliranti idee sulla vita primaverile, tornerò a bomba sul perché  dovreste leggere David Copperfield. Non mi soffermerò su tutti i motivi critico-letterari, di cui potrete leggere i solluccheri sui vari blog migliori del mio, ma su motivazioni più pragmatiche, ma altrettanto nobili.

  • La compagnia. David Copperfield è un libro di mille pagine, per cui tolto che siate Mandrake o leggiate una pagina ogni dieci, sarà un libro che vi terrà compagnia per un lasso di tempo variabile, ma sicuramente superiore a una settimana. I libri che mi fanno compagnia per un certo periodo, mi restano sempre più nel cuore di quelli che riesco a finire in qualche giorno e che mi lasciano sempre con l’amara sensazione di una botta e via. Leggere David Cooperfield è come avere una relazione, breve se vogliamo, ma si sperimentano tutte le fasi, entusiasmo, distacco, noia, ripresa dell’entusiasmo etc.
  • Il tempo. Essendo un romanzo di formazione, o come piace dire agli amici “teteschi”, Bildungsroman, David Cooperfield, narra la vita del simpatico David a partire dalla nascita sino ai suoi trent’anni. Quindi, tolto che siate dei mostri privi di cuore, vi affezionerete subito al ragazzino e tiferete per lui e starete male per le sue sventure, come se fosse un vostro amico, o un parente, o tutte e due messi insieme. Non solo, considerato il genio indiscusso di Dickens nella creazione dei personaggi, vi affezionerete a tutti, alla zia Betsey, al Signor Micawber a Peggoty e vi dispiacerete,  come ho fatto io, quando il libro sarà finito.
  • La modernità. Dickens mi fa rivedere le mie posizioni sugli scrittori russi. Voi direte, embé, quindi? Quindi è importante. Perché la modernità estrema (non solo di prosa, ma anche di prospettive) che ho potuto riscontrare leggendo questo libro, è sicuramente differente da quella di Dostoevskij, ma altrettanto grandiosa. Per altro pare che il buon Fedor fosse un lettore accanito di Dickens e che anzi David Cooperfield fosse il suo libro preferito (potrebbe essere una Chiarata questa, verificatela). Il libro è pervaso di etica, di storia, di umorismo, di disperazione e di felicità, infuse in maniera suberba.
  • Scene di addio/morte. Non so se questo sia un plus o meno, ma io ve lo dico lo stesso, Dickens è un drago nel descrivere le scene di addio e/o morte. Fanno venire i brividi, sono così intense che le devi rileggere duecento volte, per capire come fa.  Io che amo molto i momenti di tensione melodrammatica l’ho trovato incantevole.

Non andrò oltre, in primis perché superate le trenta righe, io stessa non leggerei un post così lungo, secondo perché dovete correre a comprare David Cooperfield. Possibilmente non su Amazon,  ma in qualche libreria che ha bisogno del vostro acquisto.

Se volete potete iniziare a leggerlo sulle note della Goggi, che con Maledetta Primavera ci sistema tutti, altro che global warming.

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